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LEONARDO E CLARETTA *
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Loretta Emiri **
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Leonardo
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Il prete lo modificò perché nessuna santa si chiamava così e nemmeno era il corrispettivo femminile del nome di un santo; in Comune non ci furono problemi e venne registrata con quello che i genitori avevano scelto per lei. Oggigiorno decisamente più diffuso, all’epoca il termine era usato ben poco: alla bambina timida e introversa, che faceva del tutto per rendersi invisibile agli occhi del mondo, gliene derivava un certo imbarazzo. Un giorno volle indagare sulle ragioni che avevano portato a sceglierlo. La madre le raccontò di averlo visto stampato su una scatola di scarpe; reputato grazioso anche dal marito, avevano deciso che, se fosse stata una femmina, ci avrebbero chiamato la creatura che stava per nascere. L’adolescenza è l’epoca in cui ogni stronzata può assurgere a dramma. La spiegazione della madre la fece piombare nella più cupa disperazione. Da quel momento la ragazzina passò a detestare il proprio nome e a sentirne vergogna; mentre noi, da qui in avanti, possiamo prenderla in giro perché la scrittrice ha deciso di ribattezzarla Scarpetta.
Un giorno rinvenne la collezione di dischi appartenuta al nonno paterno, morto prima che lei nascesse. Constatando che il titolo di un brano corrispondeva al proprio nome, fu pervasa da emozione. Evidentemente la costruzione della sua identità non era cominciata a partire da una prosaica scatola di scarpe. Suo padre doveva aver udito quella musica quando era ancora un ragazzo. Addirittura si poteva andare più a ritroso nel tempo. Per intitolare il brano, il compositore aveva utilizzato il nome della donna che era stata la sua musa; e la musa è una dea, non una donna qualunque. Tante constatazioni predisposero la giovane all’ascolto sacrale del brano per orchestra. Già con le prime note della mazurka, cominciò a formarlesi dentro un’immagine evocante due forti personalità e un grande amore. Udì il brano esaustivamente, fino a convincersi che il suo nome fuori del comune era decisamente aggraziato e musicale. Si fece regalare il disco, rimise l’album al suo posto, all’armadio affidò il compito di custodire quanto restava del corpo del nonno.
Una sensuale e brava attrice americana, di vari anni più anziana di lei, aveva il suo stesso nome. Quando se ne rese conto sperimentò sentimenti di lusinga e voluttà, ma l’orgasmo lo raggiunse solo molti anni dopo. Sfogliando una rivista brasiliana vide una foto di Robert De Niro: aveva un cuore infranto e il vero nome di Scarpetta tatuati sul petto. Ingrandì, riprodusse e spedì la foto agli amici, confidando che Robert si era preso una cotta per lei; ci fu chi le credette. La maturità è l’epoca in cui si tende a spacciare mica per oro pur di dar valore al non senso della vita. Donna più che matura, Scarpetta ha deciso di riscriversi l’esistenza perché quella che sta conducendo non le piace proprio. Il wỳỳ è un cesto da carico: quando il gruppo decide di intraprendere un viaggio, in esso la donna yanomami stipa tutti, ma proprio tutti, i beni materiali appartenenti alla sua famiglia nucleare; il wỳỳ materializza la constatazione che veramente poche sono le cose di cui si potrebbe avere bisogno per vivere con dignità e in armonia con la natura. Man mano che scrive, Scarpetta elimina riferimenti e termini che non siano strettamente necessari: tutto quello che reputa superfluo le è d’intralcio; vuole riuscire a mettere nel wỳỳ solo cose essenziali.
Vorrebbe averlo conosciuto. Sia che fosse riuscita ad eseguire uno scatto fotografico o un dipinto impressionista, la ricostruzione dell’identità del nonno sarebbe cominciata a partire da un prezioso ricordo personale. La letteratura è un’interposizione fra storia e ricordo. Ha mescolato insieme nozioni storico-geografiche opportunamente rivisitate e i ricordi che sua madre le ha trasmesso. Ha riunito sparpagliate foto d’epoca, trascorrendo ore a scrutarle con lente d’ingrandimento, fissando Leonardo negli occhi con sguardo ossessivo, impertinente, intenso. Ha analizzato titoli, autori, date, definizioni di danze e arie musicali che appaiono sulle etichette dei dischi del nonno. L’incontro è avvenuto perché Leonardo era riuscito a incidervi i suoi sentimenti: quando Scarpetta si è messa consapevolmente ad ascoltare i dischi, all’unisono nonno e nipote hanno vissuto e rivissuto le stesse emozioni. Se a scrivere in questo momento fosse Borges, con parole chiare e insondabili dimostrerebbe che in un punto determinato del labirinto che collega i vivi ai morti, nell’atomico spazio precluso all’azione del tempo, lì nonno e nipote si sono incontrati. Non veri entrambi, solo verosimili, si sono capiti e accettati, addirittura piaciuti. Il profilo tracciato da Scarpetta potrebbe non corrispondere ma, tollerante come è sempre stato, con certezza Leonardo non sta rigirandosi nella tomba per questo. Se la non convivenza non gli ha impedito di influenzare l’esistenza di sua nipote, perché lei non avrebbe dovuto essere in grado di contaminare la personalità di lui? Per ricostruire l’identità del nonno Scarpetta ha dovuto solo mettersi in ascolto.
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Claretta
Cos’è il ricordo? La memoria è una finzione verosimile, proprio come la letteratura. Possiamo servircene per edificare la nostra stessa identità. Ricordi risalenti a tenerissima età possono essere effettivamente trattenuti? Aveva tre anni e cinque mesi quando la nonna paterna morì, eppure crede di conservare nitide immagini a lei riconducibili. Esile e gentile, lo sguardo triste, piccole lenti cerchiate di metallo, un giornale o un libro sempre a portata di mano. Due lettini affiancati a quello matrimoniale: in uno dormiva il cugino, nell’altro lei quando trascorreva qualche giorno con la nonna. Passato l’arco su cui poggiava la camera da letto, c’era una strada inghiaiata abbellita da un muretto. Aggirato il muro e attraversata la stradina sottostante, si raggiungeva un giardino microscopico con su piantata una croce di legno, siepi e cespugli di rose. Una grande pietra, bassa e squadrata, fungeva da sedile. La maestra raccomandava di non cogliere fiori, nemmeno quelli spontanei, così che allietassero la vista di potenziali altri visitatori.
Alcune volte la passeggiata fu più avventurosa. Attraversato il minuscolo centro abitato, costeggiavano la siepe della villa di signorotti del luogo e raggiungevano la località chiamata “San Carlo”. Era un terreno triangolare con su edificata una cappellina dedicata al santo; due lati del triangolo fiancheggiavano, rispettivamente, la strada di accesso al paese e un sentiero che portava ai campi. La magia del luogo derivava dall’intenso odore emanato dai pini, e dal tappeto di aghi regalante la sensazione che i passi non toccassero terra. Snocciolando il rosario, la maestra diceva di pregare per il marito. Nella testa della nipote frullavano domande ma, timida com’era, non riusciva a formularle; e poi quella vecchina gracile le incuteva una gran soggezione. Nonostante ciò, se dovesse scegliere degli aggettivi da abbinare ai rari momenti vissuti con quella nonna direbbe che furono piacevoli, definitivi.
Da tempo immemorabile Scarpetta usa profumo alla fragranza di pino. Accorti stoccaggi le hanno permesso di non rimanerne mai sprovvista, nemmeno quando viveva in piena foresta amazzonica. Prima ancora di visualizzarla, amici italiani e brasiliani hanno percepito la sua presenza a livello olfattivo, presenza non dissociabile, appunto, dall’odore di pino. Non è riuscita a rendersi invisibile agli occhi del mondo ma, grazie a detrattori e coglioni, ci è andata molto vicino: i primi fanno del tutto per occultare o banalizzare la sua produzione; i secondi la ignorano o snobbano come persona, negandole anche informazioni minime che le permetterebbero di districarsi nell’aggrovigliata foresta editoriale. Non segue la moda: quelle appuntite come lame e con tacchi che fanno rumore, le considera armi non scarpe; usa solo calzature che le consentano di attraversare il mondo con la sensazione di stare camminando su un tappeto d’aghi di pino, senza far rumore, senza dar fastidio.
Le poesie adolescenziali le scrisse nel primo diario: la madre ficcanasò nella sua opera prima e lei, in preda a rabbia e vergogna, in quel momento non trovò meglio da fare che bruciarla. A distanza di dodicimila chilometri e vari anni luce, la costruzione della sua identità letteraria continuò con l’elaborazione di un rapporto riguardante il progetto, che stava portando avanti fra gli indios Yanomami dell’area del Catrimâni, di alfabetizzazione di adulti nella lingua materna. Durante i sopraggiunti anni della fertilità partorì poesie in una lingua non madre. Non vergognandosi più dei propri sentimenti, fece addirittura questione di ricostruire a memoria le prime incenerite poesie, e in parte ci riuscì. Da ragazza, il fatto di aver avuto una maestra per nonna l’aveva tanto inorgoglita. In Amazzonia, realizzando ricerche linguistiche e sperimentazioni didattiche, l’aveva sentita costantemente vicina.
* Il brano “Leonardo e Claretta” è tratto dal romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne, Loretta Emiri, CPI/RR, Fermo, 2011.
** Loretta Emiri è nata in Umbria nel 1947. Nel 1977 si è stabilita in Roraima (Brasile) dove ha vissuto per anni con gli indios Yanomami. In seguito, organizzando corsi e incontri per maestri indigeni, ha avuto contatti con varie etnie e i loro leader. Ha pubblicato il Dicionário Yãnomamè-Português, il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver, la raccolta poetica Mulher entre três culturas, i volumi di racconti Amazzonia portatile e Amazzone in tempo reale (Premio Speciale della Giuria per la Saggistica del Premio Franz Kafka Italia 2013), il romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne. È anche autrice dell’inedito A passo di tartaruga, mentre del libro Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più, anch’esso inedito, è la curatrice.
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