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di Giulia De Baudi
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Ci sono momenti nella storia in cui sembrano aprirsi enormi possibilità di realizzazione umana. In quei momenti l’utopia sembra divenire reale. In quei momenti sembra che libertà e eguaglianza possano convivere dialetticamente. La storia ci dice però che, finora, dopo questi periodi felici ma antropologicamente poco fecondi, sono seguite feroci restaurazioni che riportano allo “stato precedente”.
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La rivoluzione di ottobre è stato uno di questi momenti. La rivoluzione di ottobre non si limitò a stravolgere i rapporti di proprietà e di potere in Russia e nel mondo, ma diede modo anche alla gioventù sovietica la possibilità di sperimentare nuove concezioni della sessualità e degli affetti. La ricerca di libertà sessuale e di eguaglianza tra generi, narrata anche da Nazim Hikmet nel suo romanzo Gran bella cosa è vivere miei cari, durò una breve stagione. Già nei primissimi anni venti la reazione patriarcale, cavalcando l’insicurezza sociale e la crisi economica di quegli anni, muoveva le proprie pedine per annichilire le libertà individuali e restaurare l’ineguaglianza tra donna e uomo. «È in questo scenario – scrive Luigi Cavallaro nella sua splendida introduzione al testo della Kollontaij – che «Largo all’Erosa alato! irrompe nel 1923, con la forza travolgente propria di ogni concreta utopia».
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Il pamphlet di Aleksandra Kollontaj, sottotitolato “Lettera alla gioventù lavoratrice” si svolge come una lettera scritta ad un ipotetico compagno che si chiede che senso attribuire alla sessualità in quel periodo di forti trasformazioni antropologiche e culturali. «Mio giovane compagno, mi chiedete quale sia il ruolo che l’ideologia proletaria assegna all’«amore». Quel che vi turba è che la gioventù lavoratrice sia attualmente «più occupata dall’amore e da tutte le questioni connesse» che dai grandi compiti con i quali la repubblica dei lavoratori deve misurarsi.»
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Così inizia il testo «breve ed incendiario» che si attirò critiche durissime da parte dei compagni del Partito comunista. Scrive L. Cavallaro che i conservatori sovietici, usando il pretesto della priorità “risanamento economico” avevano deciso che non fosse «decisamente possibile rifondare la morale sessuale sulle basi straordinariamente progressiste propugnate dalla Kollontaij, le uniche davvero capaci di togliere la contraddizione aperta all’indomani della rivoluzione dal riconoscimento alle donne russe delle libertà civili e sessuali (divorzio, riconoscimento delle coppie di fatto, parificazione dei figli legittimi a quelli nati fuori dal matrimonio, soppressione della podestà maritale, aborto, ecc.)»
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Infatti già nel 1926, annullando completamente le proposizioni ugualitarie e libertarie di A. Kollontaij, fu varato un nuovo codice che di fatto restaurava la legge sulla famiglia precedente a quello approvato nel 1918.
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Il nuovo codice di “normalizzazione”, propugnato da Stalin, riportava sulla scena la “centralità della famiglia” intesa come luogo delle ineguaglianze tra i generi e altare sul quale sacrificare la libertà della donna. Scrive L. Cavallaro «Nel breve volgere di qualche anno, si assistette al ripristino della criminalizzazione della libertà dei costumi e del vagabondaggio sessuale, dell’omosessualità e della prostituzione; si tornò ad esaltare la famiglia tradizionale, aggravando le procedure per il divorzio, ristabilendo l’autorità paterna e differenziando lo status giuridico tra figli legittimi e illegittime; si diede nuova enfasi alla procreazione, non solo tassando i celibi e le coppie senza figli, ma addirittura creando il titolo onorifico di “Madre eroica” (più di 10 figli) e l’ordine della “Gloria Materna” (da 7 a 9 figli); soprattutto, si tornò a vietare l’aborto, salvo in caso di pericolo per la salute della donna.»
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In questo scenario in cui la donna deve tornare al ruolo ideologico di mera fattrice non c’è certamente spazio per le rivendicazioni identitarie di A. Kollontaij. Per lei il vero rapporto uomo-donna avrebbe dovuto essere un amore «da compagni». Un rapporto dialettico e non esclusivo, liberato dai vincoli giuridici e mentali del matrimonio borghese. Un rapporto donna-uomo che, come aveva vaticinato il socialista utopista Černyševskij, nel suo romanzo filosofico, “Che fare?”, proprio per la sua caratteristica egualitaria e libertaria avrebbe rafforzato i sentimenti di solidarietà sociale: «l’amore-solidarietà – scrive Kollontaj – avrà un ruolo motore analogo a quello della concorrenza e dell’amor proprio nella società borghese».
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Ma le idee “troppo” rivoluzionarie di A. Kollontaj vennero messe da parte per “ragion di stato”. La libertà del rapporto tra i generi venne sacrificata da Stalin in favore di una eguaglianza formale che però nientificava l’eguaglianza tra uomo e donna. Le donne sovietiche – come avvenne alle partigiane italiane dopo il 25 aprile , e secondo i desiderata Togliatti e Berlinguer – tornarono ad essere mere procreatrici di spavaldi figli – maschi – “del sol dell’avvenire” e angeli del focolare domestico. Le istanze di realizzazione sessuale affettiva invocate nella “lettera alla gioventù lavoratrice” furono guardate con sospetto e ferocemente inibite. L’arresto e la deportazione delle Pussy Riot rievocano il gelido clima sovietico che si perpetua.
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Aleksandra Kollontaij grazie alla sua lontananza dall’Unione sovietica (fu ambasciatrice in Messico dal 1925 al 1927, in Norvegia dal 1927 al 1930, e in Svezia dal 1930 al 1945) riuscì a sopravvivere alle persecuzioni staliniane, caso davvero eccezionale tra i dirigenti bolscevichi del 1917.
Lei ci lascia il suo inno al rapporto uomo donna (lo potete leggere qui) che mantiene ancora inalterata la freschezza del suo pensiero sulla realizzazione della sessualità tra uguali per nascita e diversi per identità sessuale.
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25 febbraio 2015
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