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di Gian Carlo Zanon
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«Il principio supremo per ogni uomo delle SS è: Dobbiamo essere fedeli, corretti, solidali solo nei confronti di chi ha il nostro stesso sangue; nei confronti di nessun altro. Non me ne importa nulla di come stanno i russi, di come stanno i cechi. […] Che gli altri popoli vivano nell’agio o che crepino di fame, mi interessa solo nella misura in cui abbiamo bisogno di loro come schiavi per la nostra cultura; altri punti di vista non mi interessano. Se durante la costruzione di un fossato anticarro 10.0000 russe stramazzano a terra per lo sfinimento, ciò mi interessa solo riguardo alla questione se il fossato anticarro, che serve alla Germania, sarà finito in tempo utile oppure no. Noi non siamo mai rudi e privi di cuore dove non è necessario. Noi tedeschi siamo gli unici al mondo a trattare bene gli animali e avremo un atteggiamento civile anche nei confronti di questi animali umani (Menschentiere). Ma è un crimine contro il nostro stesso sangue se ci preoccupiamo per loro o se portiamo loro degli ideali, con il solo risultato che i nostri figli avranno ancora più difficoltà a gestire la situazione.»
H. Himmler, Discorso di Poznan, 4 ottobre 1943, in Linee resistenti di Iliano Caprari, Asino d’Oro Editore, 2019. p. 9-10
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«Falso è concepire l’essere umano nel suo isolamento, chiamato a una decisione arbitraria nei confronti di un’immagine di sé che viene altrettanto arbitrariamente presupposta»
Adriano Fabris
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Roma, 10 dicembre 2014 – In questi giorni si susseguono articoli che parlano dei famosi Schwarze Hefte (Quaderni neri) di Martin Heidegger. Questi quaderni sono gli appunti personali, “intimi”, del filosofo tedesco stilati dal 1931 al 1969.
La prima parte (1931- 1941) è stata resa pubblica in Germania solo qualche mese fa (in Italia uscirà per Bompiani a fine 2015).
A parte la netta presa di posizione della filosofa Donatella Di Cesare – che però è ancora vice presidente della Martin Heidegger-Gesellschaft, associazione dedicata al filosofo tedesco – gli altri articoli eccellono per quel tipo di «indeterminatezza» che lascia «aperta la possibilità di interpretazioni molteplici (…) che chiunque può interpretare a suo piacimento» di cui parla, riferendosi ad Heidegger, Adriano Fabris nel libro da lui curato ”Metafisica e antisemitismo – I Quaderni neri di Heidegger tra filosofia e politica” (Edizioni ETS). «Si tratta – scrive Fabris nella sua prefazione – di contributi presentati e discussi nel corso di una giornata di studio svoltasi al Seminario di Filosofia dell’Università di Pisa il 1 luglio 2014, in collaborazione con il Dottorato in Filosofia Pisa-Firenze.»
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Come scrive il curatore di questo libro, « in filosofia non sempre la coerenza paga», e infatti il filosofo-star italiana Gianni Vattimo pensa che «I “Quaderni neri” sono un documento d’epoca ma anche un pezzo della biografia di un pensatore del quale la filosofia del Novecento non può fare a meno.» (L’Espresso 5 dicembre 2014). Vattimo, contro ogni documento in grado di sconfermare la sua fede heideggeriana, non crederebbe mai che il Mago di Messkirch possa essere un nano del pensiero “con idee disgustose”, come venne definito da Jürgen Kaube sul Frankfurter Allgemeine Zeitung il 27 dicembre 2013.
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Contrariamente a Vattimo, Donatella De Cesare, che ora finalmente sembra aderire, almeno parzialmente, alla tesi espressa da Emmanuel Faye nel 2005 nel suo saggio “Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia”, su “L’Espresso+ on line” (1 dicembre 2014) dice «La lettura dei quaderni neri cambia il quadro (…) Di simile parere sembra essere Peter Trawny, il curatore tedesco delle opere del filosofo. Proprio in questi giorni esce in Italia un suo saggio nel libro “Metafisica e antisemitismo” (ETS) con interventi di vari autori sui “Quaderni neri” (a cura di Adriano Fabris). (…) Trawny però – prosegue la filosofa – non vede la continuità tra il pensiero filosofico tedesco e Heidegger. E del resto nessuno finora ha scritto la storia dell’antisemitismo nella filosofia occidentale, e forse sarebbe il caso di farlo. Per questo il mio libro parte da un excursus da Lutero e fino ad Adolf Hitler».–
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Un sunto sulla storia dell’antisemitismo nella cultura cristiana occidentale in verità è stato già scritto da Giampiero Minasi in un piccolo grande saggio “I Quaderni neri di Heidegger, cattolico nazista e antisemita” pubblicato su BabylonPost. «Non sorprende – scrive Minasi – che da qui (dal “radicalismo delirante” di Heidegger N.d.R.) si possa arrivare alla più disumana e irrisoria delle conclusioni, enunciata non nei “Quaderni neri”, bensì nella conferenza di Brema del 1949 dal titolo Die Gefahr. Per Heidegger, responsabile dello stermino è stata la tecno-scienza, ma gli ebrei non vanno compianti: da un lato, essi ne sono corresponsabili, avendola originata col loro spirito calcolatorio; dall’altro essi, puri enti senza rapporto con l’Essere, quasi accidenti senza sostanza, non hanno lo statuto di esseri umani (…) e quindi la loro scomparsa non è degna di essere chiamata morte».
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E qui, tornando al libro curato da Alessandro Fabris, pongo una domanda: perché nei testi di questo libro non si parla di un prima, di un durante e di un dopo il periodo nazista nel pensiero di Heidegger? Solo il saggio del curatore apre una ricerca storica sul pensiero di Heidegger. Leggendo gli altri saggi presenti nel libro invece si viene portati a credere che i “Quaderni neri” siano stati stilati dal ‘39 in poi.
Di conseguenza si è indotti a pensare che l’antisemitismo di Heidegger sia stato condizionato dal nazismo trionfante, e ciò non è vero, è vero il contrario. Come documenta Emmanuel Faye nel suo saggio «(…) quando scrive, il 12 agosto 1920, che “gli ebrei e i profittatori sono ormai un’invasione”, o quando, il 19 marzo 1933, deplora il fatto che Jaspers, un uomo “puro tedesco, con l’istinto più genuino, che sente la più alta sfida del nostro destino e individua i compiti, resti vincolato dalla moglie», che è ebrea.» Questo non è un “errore” questo è ciò che prepara all’orrore e ogni giustificazione deve cadere di fronte a queste parole che qualificherebbero come disumano chiunque le pronunciasse, tanto più se questi è un filosofo.
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A dire il vero però mi interessa troppo il saggio di Adriano Fabris posto, saggiamente, a chiusura del volume, per impelagarmi in discussioni sulla vexata quaestio “Heidegger era antisionista o antisemita”? Era antisemita o antigiudaico?” che francamente … Non voglio neppure parlare di affermazioni di alcuni studiosi di Heidegger di fama mondiale che dal punto di vista dell’onestà intellettuale mi appaiono quantomeno imbarazzanti se non inquietanti. Non lo voglio fare per ovvie ragioni di spazio e per non ferire la suscettibilità dei dotti relatori … ma frasi come «Si erra veramente solo quando non si sa di errare» o «Il problema è complicato dal fatto che Heidegger certamente non pensava che le sue affermazioni sull’ebraismo mondiale (Weltjudentum) fossero antisemite.» mi lasciano allibito. Ma forse sarà perché il mio approccio alla conoscenza è dialettico e non posso accettare supinamente assunti del tipo … «Il dialogo ricercato dal pensiero heideggeriano non è la discussione critica a distanza. Si tratta piuttosto di ascoltare, di orecchiare nel silenzio, d’ubbidire.» perché mi scatta il no del rifiuto.
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Il saggio di Fabris, oltre alle molteplici analisi sull’opera heideggeriana e i richiami alla responsabilità dei filosofi, apre una ricerca molto importante per quanto concerne l’applicazione delle “idee” espresse in “Essere e tempo” (1927) al modello di “popolo tedesco” auspicato da Heidegger: «Non è un caso – scrive Fabris – che Heidegger parli di “popolo” nei suoi scritti del periodo del rettorato (1933/34). In particolare questa nozione è centrale nel suo discorso d’insediamento come rettore dell’università di Freiburg i.B. intitolato “L’autoaffermazione dell’università tedesca”. In esso Heidegger applica al popolo come soggetto collettivo la stessa struttura di pensiero che caratterizza l’esserci in Essere e tempo.»
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Ma, avverte Fabris «Al fondo di questa impostazione heideggeriana vi sono però alcune assunzioni implicite, ben precise, alcuni presupposti che comportano determinate conseguenze. Vi è in primo luogo l’idea, che Heidegger condivide con buona parte del pensiero moderno, del primato del rapporto a sé rispetto alla relazione con altro. Voglio dire che il protagonista dell’indagine heideggeriana, colui che è chiamato a far filosofia, è anzitutto chi è in grado di rapportarsi a se stesso. (…) L’autorelazione ha dunque il primato rispetto a ogni forma di relazione ad altro.»
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Questo, se ho ben capito ciò che scrive il curatore del libro, è una credenza pericolosa perché, come scrive lo stesso Fabris: «Falso è concepire l’essere umano nel suo isolamento, chiamato a una decisione arbitraria nei confronti di un’immagine di sé che viene altrettanto arbitrariamente presupposta.»
Infatti “essere” essenzialmente significa stare in rapporto con l’altro da sé. Senza l’altro da sé si può esistere ma non essere. Essere significa relazionarsi tra uguali, coinvolgersi, perché, come scrive Fabris, «Le conseguenze di tutto ciò sono importanti. Sia sul piano teorico che nella pratica. Lo sono anzi proprio dal punto di vista del rapporto tra filosofia e politica. Ne è un’immediata riprova la concezione che Heidegger elabora del popolo tedesco pochi anni dopo Essere e tempo, all’epoca della sua adesione al nazionalsocialismo. Dove il “popolo”, guidato da un Führer, è il surrogato di quella comunità che Heidegger proprio non riesce a pensare nelle relazioni che l’attraversano e la coinvolgono.»
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Il richiamo di Heidegger ad esprimere l’autenticità dell’essere del popolo tedesco ha in sé il veleno della “pulsione di annullamento” (1) contro l’altro da sé che porterà alla tragedia della Seconda Guerra mondiale con i suoi settanta milioni di morti: «Ed è altrettanto chiaro – dice Fabris – l’esito a cui questa elaborazione conduce. Il rifiuto di condividere la dimensione quotidiana degli altri popoli, la volontà di scegliere se stessi nella propria autenticità, (…) il primato del popolo tedesco proprio nella sua possibilità di decidersi, e di decidersi per la propria essenza: tutti questi sono elementi che rivelano fin da subito la loro pericolosità.»
E chi indicherà quale sia, di volta in volta, la forma che dovrà prendere “l’autenticità del popolo tedesco”? Ma il Mago di Messkirch no è altro che una riedizione tragica del Mago di Oz, il vecchio ventriloquo al quale, non i filosofi ma Dorothy , una bambina con un po’ di buon senso, fa cadere la maschera.
«È Heidegger – scrive Fabris – che di fatto intende indurre i suoi ascoltatori ad accogliere la propria missione. È lui che pretenderebbe di «guidare la guida» (den Führer führen). È qui che il filosofo vorrebbe svolgere un’azione politica: quella di colui che risveglia il popolo alla decisione per il proprio sé autentico.»
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Ma ha fatto male i conti. Come successe a Gabriele D’Annunzio con Mussolini, egli viene messo in disparte da chi sa realizzare meglio di lui la propria “autenticità dell’essere” per annullamento dell’altro da sé: Adolf Hitler. Hitler che, come ha documentato nel 2005 Emmanuel Faye e come ora scrive Donatella Di Cesare, assume a sé la filosofia heideggeriana e la utilizza per dare forma verbale alla sua psicosi distruttiva. «Si dà per scontato – dice la studiosa nell’articolo su L’Espresso già citato, che il “Mein Kampf” di Hitler sia semplicemente – un delirio razzista». Il testo hitleriano invece è un copia e incolla dei pensieri di Heidegger sulla realtà dell’essere umano che, come dice Fabris all’inizio degli anni trenta trasmigrano in un visione politica.
«In conclusione – scrive al termine del suo saggio Adriano Fabris – possiamo dunque chiarire il legame che sussiste tra l’ambiguità che attraversa il pensiero di Heidegger e il modo in cui viene da lui messa in opera la relazione tra filosofia e politica.»
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Non sono un filosofo, ma in questi ultimi anni 30anni ho percorso i sentieri filosofici con la lampada alimentata dalla Teoria della nascita di Massimo Fagioli che mi ha permesso e mi permette di vedere ciò che la cultura dominante ha sempre cercato di annullare, di far sparire.
Vorrei fare mille domande al filosofo Alessandro Fabris, ma forse ne basta una che diviene molteplice e che va prima argomentata.
La domanda verte su un nodo fondamentale: come declinare la nozione di “realtà umana”, intesa come irrazionale, come ciò che non è ragione, in termini heideggeriani?
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Secondo il filosofo tedesco – il professor Fabris mi correggerà se sbaglio – l’essere umano nasce come animale: «L’essersi però fermato al Geworfenheit, l’esser-gettato nel mondo (=parto animale), – scrive Minasi nell’articolo già citato – senza arrivare a trovare l’origine nella nascita umana e nelle sue dinamiche di trasformazione, conduce Heidegger alle tragiche conseguenze denunciate da Fagioli: l’identità umana si realizzerebbe come essere per la pulsione di annullamento; il No che vede e rifiuta le situazioni negative viene confuso con la negazione che altera la verità».
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In “Essere e tempo” Heidegger senza dubbio non relega, come fa in quegli anni Freud, l’essere in un metafisico Das Unbewusste, un “Inconoscibile”, che esclude qualsiasi possibilità di conoscenza. Egli si inoltra, come aveva fatto Nietzsche, e prima di lui Hölderlin, nell’aorgico, nelle profondità dell’Es, nel dionisiaco, nel caos primigenio. Anche Nietzsche e Hölderlin avevano varcato la soglia dell’invisibile, e lì persero la mente.
Heidegger si inabissa nelle acque dello Stige, fiume degli inferi, per svelare la verità. Ci va però con lo scafandro della religione cristiana che, se da una parte lo protegge dalla psicosi, dall’altra gli permette di vedere da un piccolo oblò … solo ciò che egli proietta: il Todestrieb , ovvero l’istinto di morte che egli coniuga in “essere per la morte”. Scrive Fabris: «Tuttavia il prezzo da pagare, una volta assunta questa tesi, è molto alto. Consiste nel rendere arbitrario, cioè appeso a una scelta individuale – o alla scelta di un capopopolo – ogni progetto di vita. Comporta il rendere insensato, perché dipendente da questa scelta, ogni comportamento umano. Implica la necessità di metterlo alla prova nella lotta. Conduce, in ultima analisi, a un nichilismo distruttivo.»
Ed è a questa sentenza definitiva sull’essenza della realtà umana che Heidegger approda, ripetendo l’antica concezione giudaico cristiana del peccato originario, un male che avrà fine solo con la morte, e sarà, solo in parte, mondato dal rito apotropaico del battesimo.
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L’essere per la morte heideggeriano, il peccato originale giudaico- cristiano, il bambino polimorfo perverso di Freud, il non umano nel bambino di Aristotele, altro non sono che facce della stessa medaglia: la scissione tra corpo e mente. Gli antidoti che dovrebbero, almeno in parte, ricomporre corpo e mente sono di volta in volta: per Freud l’identificazione col padre; per il logos occidentale il raggiungimento della ragione e la perdita di una presunta animalità incistata in un recondito angolo della mente e pronta a balzar fuori al primo “sonno della ragione”; per il sistema teologico cristiano la “cura” è rinuncia del sé più profondo, ovvero il raggiungimento del nirvana, l’atarassia del corpo. Corpo percepito in modo delirante come spazio demoniaco per eccellenza. Secondo Heidegger la fusione corpo mente può avvenire solo liberando l’autenticità dell’essere ovvero portando l’istinto di morte, inteso non come malattia psichica ma come la vera e unica realtà umana da lui intravista nell’inconscio, a esprimersi unita al corpo nella prassi quotidiana – homo homini lupus – e nella prassi politica, conquista dello spazio vitale per il popolo tedesco.
Come scrive Minasi «E quando poi dall’ambito individuale si passa alla “comunità di destino e di popolo” e ci si lega alla prassi politica, il percorso di “liberazione” dell’individuo autentico che è-per-la-morte, diventa il percorso collettivo del popolo tedesco che dà la morte.»
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Il Én kai Pân, (essere in assoluto) di Hölderlin, che egli intendeva come un irrazionale creativo sede della fantasia, della dimensione del mito e della fiaba, proprietà estranee della tradizione occidentale, viene capovolto da Heidegger che mostruosamente lo muta in “autenticità dell’essere”, una mera affermazione di sé che esclude l’altro da sé e che diviene “essere per la morte” … dell’altro.
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Anche lo psichiatra Massimo Fagioli oltrepassa, già negli ultimi anni ’50, la soglia dell’invisibile. Non lo fa stando seduto ad una scrivania a fantasticare ruminando i paradigmi del logos occidentale o snocciolando i grani del rosario. Lo fa oltrepassando i cancelli degli ospedali psichiatrici cercando di capire le patogenesi, nascosta nel rapporto interumano, che aveva reso quelle donne e quegli uomini non più uguali a lui. Certo cerca la “noxa patogena”, vale a dire il danno psichico subito dal paziente, che gli ha fatto perdere quell’uguaglianza che fa, alla nascita, tutti gli esseri umani uguali. Uguali non per leggi scritte o per ideologie, ma per la dinamica psichica che è per tutti la stessa.
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«Nel 1972 – scrive lo psichiatra Beniamino Gigli su I giorni e le notti – viene pubblicato “Istinto di Morte e Conoscenza”, opera di uno psichiatra italiano, Massimo Fagioli. Attraverso le osservazioni cliniche, l’interpretazione dei sogni e un’accurata metodologia deduttiva vengono formulate proposizioni teoriche ponenti al centro dello sviluppo mentale il processo trasformativo occorrente alla nascita, ossia l’emergenza del pensiero umano dal substrato biologico in seguito alla stimolazione luminosa della rétina. Pensiero che si caratterizza per l’immediato rifiuto del mondo inanimato e contemporaneamente per l’emergenza di una speranza certezza dell’esistenza umana .
Si definisce in ciò il senso, ovvero la direzione entro cui può svilupparsi l’identità dell’essere umano, e con essa il senso della vita umana: stabilire rapporti umani fuori da ogni concettualizzazione e teoresi frutto di categorie razionali. Una dinamica universale questa, inerente la nascita di tutti gli esseri umani, dunque garante della loro naturale uguaglianza indipendente da ogni codice etico imposto.»
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Fagioli nel suo viaggio attraverso la mente umana non trova l’istinto di morte come fondamento primario dell’umano, trova la pulsione, che alla nascita è “fantasia di sparizione” matrice di ogni separazione che rende possibile l’infinito dell’essere, cioè il divenire della realtà umana.
Realtà umana che spesso, all’alba della vita, viene depauperata da chi, pur nutrendo il corpo, annulla la mente del neonato. È questa la matrice psicotica, scoperta da Fagioli, che causa nel bambino la scissione tra mente e corpo privandoli della loro essenza umana: la mente sarà preda dell’astrazione religiosa, il corpo della ragione che capisce solo i bisogni del corpo. Legittimata la loro scissione dalla cultura occidentale, anziché cercare di rifondersi, il corpo acorporeo e la mente caduta nell’alienazione religiosa si alleeranno a Heidegger e ai suoi epigoni, che fanno della pulsione di annullamento il loro stendardo nazista recante la scritta Gott mit uns (Dio (è) con noi).
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Nel 2011 venne pubblicato in Germania “Todestrieb und Erkenntnis”, la traduzione del primo libro di Massimo Fagioli “Istinto di morte e conoscenza” pubblicato la prima volta in Italia nel 1972. In quell’occasione, alla fiera del libro di Lipsia, la psichiatra tedesca Hannelore Homberg, durante la presentazione del libro affermò: «Todestrieb und Erkenntnis offrirà, risposte inedite ai tanti che in Germania fanno ancora i conti con l’enorme problema del nazismo. Le radici pulsionali dell’anaffettività scoperte da Fagioli potrebbero dare una risposta estremamente importante e innovativa alla loro domanda come è potuto accadere, evitando però ogni pessimismo su una natura umana sempre pensata come necessariamente malvagia ed aggressiva».
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Dubito che senza la scoperta dello psichiatra Massimo Fagioli che indica nell’anaffettività la ragione primaria della “pulsionale d’annullamento” dell’altro da sé, si possa decriptare la shoah e smascherare la cultura millenaria che l’ha sostenuta.
Dubito anche che, senza la scoperta delle “radici pulsionali dell’anaffettività”, si possano interpretare gli accadimenti politici e sociali contingenti che drammaticamente assomigliano, non strettamente nella forma, ma nei contenuti, a quella porzione di storia … verrebbe da dire “da dimenticare” ma in realtà da tenere ben presente per non permettere che si ripeta.
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10 dicembre 2014
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Note
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(1) «Questa disumanizzazione totale è ciò che ho chiamato «negazionismo ontologico» di Heidegger nei confronti degli ebrei, che nelle Conferenze di Brema del 1949 giunge fino a escluderli, insieme a tutte le altre vittime dei campi di concentramento, dall’essere-per-la-morte. Tale negazionismo ontologico, di cui Livia Profeti ha saputo dimostrare la convergenza con la «pulsione di annullamento» scoperta dallo psichiatra italiano Massimo Fagioli, vuole significare che Heidegger non solo nega la realtà storica dei fatti, riducendo il numero delle vittime nonché ogni specificità del genocidio nazista, ma annulla l’«essere» stesso delle vittime dei campi.»
Emmanuel Faye : Heidegger profeta del IV Reich – L’antisemitismo è insito nella sua opera. Sperava nel ritorno del dominio tedesco. Una riflessione dopo l’anticipazione dei nuovi Taccuini da parte della «Lettura» Corriere della sera- Cultura – 23 febbraio 2015
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Nota aggiunta il 23 febbraio 2015
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