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di GianCarlo Zanon
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«Far la guerra, per anni, significa acquisire abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall’altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente un nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco» (1)
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«Caro Gian Carlo, (…) Se sostieni che «l’etnocentrismo è per forza di cose razzista» ritengo necessario consultare la Treccani, dove leggo:
“etnocentrismo s. m. [der. di etnocentrico, sull’esempio dell’ingl. ethnocentrism]. – In sociologia e psicologia sociale, tendenza a giudicare i membri, la struttura, la cultura, la storia e il comportamento di altri gruppi etnici con riferimento ai valori, alle norme e ai costumi del gruppo a cui si appartiene, per acritica presunzione di una propria superiorità culturale”.
Vista la definizione temo che non esista cultura che non ponga se stessa al centro di un universo considerato più buono, più valido, più umano, più giusto, più intelligente di altri.
Non conosco nessuna tradizione culturale che ritenga se stessa meno sviluppata, meno intelligente, meno valida o inferiore alle altre.»
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Inizia così il commento che Fabio Della Pergola ha postato dopo aver letto il mio articolo Identità umana o identità di appartenenza?, nel quale esponevo alcune mie perplessità sul un concetto-idea di “spirito del popolo” e rifiutavo la forma identitaria di “appartenenza”..
Come ho già scritto in risposta al commento Della Pergola, trovo il suo discorso “molto logico” ma poco condivisibile. La prima osservazione che mi salta in mente è che si continua a parlare di culture come qualcosa di definito e di monolitico e non di individui singoli che nelle società fanno – nel bene e nel male, in devenire o regredendo – cultura.
In realtà «Non esiste la storia, la società, esistono uomini che fanno la storia e la società. Bisogna allora conoscere queste realtà umane che fanno questa storia e questa società.»(2)
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Inoltre sicuramente sono esistite, ed esistono ancora, culture che si ritengono meno sviluppate, meno intelligenti, meno valide e inferiori alle altre. Basterebbe parlare delle centinaia di migliaia di esseri umani che ogni giorno sfidano la morte per cercare di sviluppare la propria identità umana in altre società. Esseri umani che ritengono, a torto o a ragione, le tradizioni culturali che vanno ad incontrare, più sviluppate, più intelligenti, più valide e superiori di quella da cui provengono. Io non penso che gli aborigeni quando vennero a contatto con gli europei credettero di essere superiori a loro. La stessa cosa vale per i nativi americani.
Per grandi linee possiamo anche dire che quando gli indigeni colonizzati sceglievano di aderire alla religione cristiana, c’era a volte anche una componente utilitaristica: pensavano che la potenza dei colonizzatori fosse dovuta alla loro divinità e quindi aderivano a quella religione per essere potenti come i colonizzatori, perdendo così la loro vera identità.
I romani, ad esempio, in epoca repubblicana, prima di assalire i loro nemici, «cercavano di tirar dalla loro parte, mediante evocatio, gli dei delle città nemiche» (3) per indebolirli psicologicamente. Ciò dimostra che non pensavano che i loro avversari fossero più deboli, o meno intelligenti o meno sviluppati culturalmente. Pensavano solo che in nemici avessero degli dei molto potenti che potevano, se non ingraziati, divenire a loro ostili.
Ma il discorso è molto, molto più complesso e non si può liquidare con un paio di sillogismi: «Quindi il discorso – scrive Della Porta nel suo commento – potrebbe concludersi qui, piuttosto bruscamente, con un “qualsiasi cultura è etnocentrica”, quindi, secondo la tua sintesi, “chiunque è razzista”.»
Dopo aver scritto queste ultime righe, mi rendo conto che procedendo in questo modo, cioè spezzettando il commento di Della Pergola posso correre il rischio di far crescere sterili conflitti. Quindi vi rimando alla lettura completa del suo commento articolato che sta in calce all’articolo.
Aggiungo che, oggi, ogni ideologia o fede religiosa che presuppone l’elezione di un popolo da parte di un dio, sia in primo luogo un delirio individuale, e in secondo luogo la somma di deliri individuali. Penso che questa ideologia/delirio «debba essere aprioristicamente interpretata come “razzismo”» e non «per poter sostenere certe posizioni politiche palesemente di parte.» come vengo accusato di fare, ma per «fare un buon servizio alla cronaca politica (…) e alla ricerca storica.» (i virgolettati in corsivo sono estratti dal commento di Della pergola mutandone il senso.)
Vado avanti nella mia ricerca sul senso della parola “identità” da solo.
E le domande sono tante : dove è inscritta l’identità del genere umano? nel Dna? in una cultura e/o una religione condivisa? nel linguaggio? nella terra/nazione o nel quartiere in cui si è nati? nell’etnia in cui si è cresciuti? nell’identificazione con figure genitoriali come suggerito da Freud? nella squadra del cuore? nel genere sessuale? nella scelta di una sessualità al di là del dato oggettivo? nella casta o classe sociale di appartenenza? oppure nella realizzazione in divenire della propria realtà umana?
Questa estate ho letto alcuni libri tra cui due romanzi, L’attentatrice di Yasmina Khadra e La sposa liberata di Abraham B. Yehoshua, che mi sono serviti per capire più a fondo i diversi modi di pensare che coesistono in Israele e nei territori che dovrebbero appartenere integralmente al popolo palestinese.
Nel romanzo di Yehoshua c’è una riflessione messa in bocca ad un giovane docente israeliano che in qualche modo è antagonista, dal punto di vista culturale, del protagonista anziano. In questa dialettica viene trattato il concetto di “identità nazionale”: «Sì, il concetto di “identità nazionale” non è autentico, naturale o concreto ma artificioso e immaginario: uno dei metodi di asservimento del potere – è il commento del giovane che, per colpevolizzare il collega anziano, gli dice – Ed è un peccato che la ricerca di un insigne studioso del ventunesimo secolo si presti a “collaborare” con l’uso di un termine infondato, sorpassato e persino pericoloso.»
Come dargli torto visto che sia la maggioranza degli ebrei, sia la maggioranza dei palestinesi continua a percorrere un sentiero che porta verso un nazionalismo legato all’identità religiosa.(4)
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Certamente, come spiega il giovane docente al riottoso cattedratico, il concetto di “identità nazionale” esposto acriticamente è molto pericoloso, affermare ciò è persino banale.
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«(…) con grande eloquenza – dice la voce narrante del professore anziano – egli spiega l’artificio del termine “identità” volto ad incastrare le classi deboli in un contesto rigido e privo di diritti, richiudendole nel ghetto di uno stato nazionale, non importa se governato da un regime totalitario o da una democrazia apparente. (…) Nessuno si interessa delle esperienze intime, vere, dinamiche. (…) Il potere impone a priori, con l’appoggio della fedele accademia, uno schema unico, un modello rigido in cui vi sono cose proibite e cose autorizzate, gli appartenenti e gli esclusi, e tutto questo perché sia facile governare.(…).
E tutto ciò per cosa? questo lo sanno tutti.
– Io no … – esclama il docente anziano –
Per preparare soldati disciplinati, destinati a partire per altre inutili battaglie.»
Credo che ci sia poco da aggiungere. Le molteplici forme di pseudo identità, genetiche, culturali, religiose, patriottiche, territoriali, etniche, genitoriali, di genere ecc. servono solo a chi ha tutte le intenzioni di perpetuare un’egemonia culturale che affonda le proprie radici nella negazione della realtà/identità umana del singolo individuo: «E l’identità, la realizzazione progressiva della persona umana, diventa invece un privilegio che si ritrova per il semplice fatto di essere nati in un determinato posto.»(5)
Nel momento in cui si aliena la propria identità umana in un ente astratto, etnia, cultura, religione, patria, ecc., abbassandola a livello di identità di appartenenza, cominciano i problemi. Cominciano i problemi perché non ci si rapporta più allo sconosciuto mettendo in gioco la propria realtà umana, ma si assume una divisa e una maschera identitaria con la quale ci si “rapporta” all’altro da sé giudicandolo a aprioristicamente. Altro da sé che, se non corrisponde al proprio modello di appartenenza, viene percepito come nemico, antagonista, avversario, contrario, con il quale non è possibile avere un rapporto, o perlomeno non è possibile avere un rapporto uguale a quello che si può avere con chi fa parte della “propria tribù”.
Ricordo un episodio tragicomico accadutomi negli anni ’80: Via del Governo Vecchio, portone della sede romana del movimento femminista, “Lui qui non può entrare” disse la guardiana alla mia amica, evitando, oltre che di rivolgermi la parola , di guardarmi.
Si inizia sempre da questi microcosmi di negazione dell’altro da sé per poi finire nelle tragedie storiche: «La condizione della donna nella società araba è forse alla base delle difficoltà degli arabi di assimilare l’idea di libertà individuale?» si chiede Rivlin il protagonista del romanzo di Yehoshua citato (pag. 315).
La volontà, più o meno cosciente, di uscire dal tempo umano per entrare nel gorgo della storia, intesa come adesione a una identità di appartenenza – o a una identità come identificazione con il padre, il maestro, il leader politico, ecc. – porta alla tragedia dell’annullamento di sé e poi alla distruzione, anche fisica, degli altri «Cosa risponderti Amin? – sussurra l’amica israeliana del medico palestinese che non capisce perché la moglie si sia “immolata per la causa” portando con sé molti innocenti – Qualcosa scatta nel subconscio ed è fatta. Aspetti solo il momento di passare all’atto. L’unico modo di recuperare ciò che hai perso o correggere quel che hai sbagliato. In poche parole, l’unico modo di diventare una leggenda è chiudere in bellezza: trasformarti in un fuoco d’artificio a bordo di uno scuolabus o in un siluro lanciato a rotta di collo contro un carro armato nemico. Bum!!! Il grande salto e, come premio, lo status di martire.»
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Cosa scatti nella mente dei martiri palestinesi è difficile da spiegare … è la risposta alle umiliazioni, al senso di impotenza … si certo ma c’è di più, e questo di più va ricercato nella realtà/identità umana degli individui che poi fanno la somma manifesta di comportamenti sociali.
Eppure la cultura continua astrattamente a credere fermamente nell’identità collettiva. Due giorni fa sul Corriere Sebastiano Vassalli scriveva «Non c’erano mai state, in anni recenti, tante violenze e tanta disperazione a premere sui confini dell’Europa e sui nostri confini. Sotto un involucro più o meno consistente di civiltà, l’animale uomo è sempre lo stesso. Chi ha scommesso sulla sua bontà, come Jean-Jacques Rousseau, o sulla sua ragionevolezza, come gli utopisti dell’Ottocento, ha sempre perso. (…) La mia personale speranza sul futuro non riguarda le donne e gli uomini in quanto individui, ma riguarda i popoli in quanto entità collettive. Il rifiuto della violenza deve venire da loro.»
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E siamo sempre agli stessi dissòi lógoi, cioè agli stessi discorsi dissociati: come se “i popoli” non fossero la somma degli individui, si parla di “spirito dell’alveare”, di religione che dà identità, di “ingranaggi sociali”, di imperio comune della ragione che dovrebbe fermare «l’animale uomo» … come se in questi duemila anni avesse funzionato.
Nel frattempo non si cerca neppure di capire cosa ci sia alla base di fenomeni abnormi come ad esempio le bande che si fronteggiano, causando una assurda spirale di sangue nelle metropoli americane. Fenomeno sociale ben rappresentato nel film Colors di Dennis Hopper. Lì la lotta è per il territorio: «Son de mi barrio hermano» , “sono del mio quartiere fratello”, è il ritornello rapper dei ragazzi ispanici drogati e armati fino ai denti, che glorifica l’identità territoriale.
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Nemmeno ci si è veramente preoccupati di comprendere le matrici di movimenti culturali come Black is Beautiful che nacque negli anni 60 cercando di eliminare il pregiudizio che le caratteristiche fisiche dei neri come il colore della pelle, i tratti del viso e la qualità del capello, fossero sinonimi di “brutto e poco attraente”. John Sweat Rock fu il primo a coniare la famosa frase “black is beautiful” chiedendo agli uomini e alle donne nere di smettere di stirare i loro capelli e schiarire la loro pelle per somigliare ai bianchi. Il movimento incoraggiò il popolo afroamericano ad accettare il loro aspetto ed esserne fieri. Ma in fondo cercavano la propria identità non nella propria realtà umana ma nella “negritudine” che li accomunava. Lo facevano sostituendo il modello vincente di White Anglo-Saxon Protestant “Bianco Anglo-Sassone Protestante”, con un modello afroamericano emergente. Obama, è un frutto di quella nuova presa di “coscienza identitaria” che ora, dopo sei anni della sua presidenza, potremmo definire meramente estetica.
Per finire propongo queste parole della neonatologa e psichiatra Maria Gabriella Gatti che fanno luce sul “mistero identitario” che per molti è legato ai legami di sangue (6): «Dietro l’opposizione alla fecondazione eterologa e la preoccupazione che essa possa prestarsi a derive eugenetiche , c’è sempre l’idea che l’identità umana sia inscritta nel Dna. La genitorialità sarebbe legata alla condivisione dei geni tra genitori e figli cioè, estensivamente, all’appartenenza non solo a un nucleo familiare ma a un’etnia.»(7)
Penso possa bastare … per oggi
4 settembre 2014
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Leggi qui il mio articolo sopra citato
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Note
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1 – Emio Lussu, Un anno sull’altipiano, Giulio Einaudi editore, 2014, pag. 136
2 –Massimo Fagioli, Istinto di morte e conoscenza, l’Asino d’Oro edizioni, 2010, pag. 20
3 – Enrico Montanari, Roma- Momenti di una presa di coscienza culturale, Bulzoni editore, 1976, pag. 157.
4 – «Durante la campagna elettorale del 1996, Benyamin Netanyahu, allora candidato del Likud, il partito conservatore israeliano, , venne sorpreso a sua insaputa dalle telecamere mentre sussurrava all’orecchio del rabbino Kaduri: “I sostenitori della sinistra hanno dimenticato cosa significhi essere ebrei”». Questa nota che ho raccolto dal romanzo di Abraham B. Yehoshua, (Einaudi pag. 235) esemplifica molto bene come individui appartenenti alla stessa religione possano venir percepiti come estranei da qualcuno che arbitrariamente si pone al centro di essa assumendo “canoni dottrinari” funzionali alle proprie intenzioni politiche.
Inoltre, dalla cosiddetta rivoluzione Komeinista ad oggi, nei paesi arabi c’è stato il rifiuto crescente della mitologia, delle forme sociali e degli dei occidentali, e il ritorno delle proprie origini religiose per una ragione identitaria. Si è visto anche i Egitto dove i Fratelli mussulmani hanno vinto le ultime elezioni.
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5 – Federico Tulli, Nel paese senza identità, left n. 33, 30 agosto 2014, pag. 65.
6 – Ad esempio la società ebraica è fortemente endogamica. Nel senso che più che nelle altre religioni monoteiste c’è una forte tendenza a sposarsi tra individui della stessa religione. Lo posso affermare anche per esperienze personali.
Leggi un’intervista dell’antropologo Emmanuel Todd http://unacitta.it/newsite/intervista_stampa.asp?rifpag=&id=160&anno=1997
7 – Maria Gabriella Gatti, left n. 33, 30 agosto 2014, pag. 15.
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