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«Sono i nuovi desaparecidos – afferma in un’intervista su Left Enrico Calamai del 16 settembre 2017 – vittime del reato di lesa umanità. I migranti morti nel Mediterraneo per precise responsabilità politiche al di là degli incidenti e delle colpe degli scafisti “cattivi”». Ad affermarlo è Enrico Calamai, tra i fondatori del comitato Giustizia per i nuovi desaparecidos, in un’intervista rilasciata al settimanale LEFT.
Un comitato che chiede giustizia per le migliaia di migranti che hanno perso la vita cercando di raggiungere l’Europa. Far uscire dall’ombra queste storie rendendole note all’opinione pubblica, attribuire la responsabilità di queste scomparse, impedire che queste morti continuino a verificarsi e, soprattutto, ricostruire la verità. Sono questi gli obiettivi dell’iniziativa, promotrice di un appello popolare per la creazione di un tribunale internazionale d’opinione «che offra alle famiglie dei migranti scomparsi un’opportunità di testimonianza e rappresentanza; contribuisca ad accertare le responsabilità e le omissioni di individui, governi e organismi internazionali e fornisca uno strumento per l’avvio delle azioni avanti agli organi giurisdizionali nazionali, comunitari, europei e internazionali».
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«È stato un silenzio durato oltre vent’anni, nel quale tutto si è andato oscurando. Poi sono intervenuti esseri umani in carne e ossa a dimostrare amicizia, a riesumare ricordi.
È stato come dare corrente a uno schermo nebbioso, che lentamente riprende a produrre bagliori.
Sono andati apparendo situazioni e collegamenti, ma sono rimaste fantasmi le vite di allora. Molto è del tutto sfumato. Forma sfocata anche l’io di prima del tunnel.
Questo non è un libro di storia. È il tentativo di fissare l’intermittenza di ricordi che risalgono agli ormai lontani anni settanta del xx secolo, nel pieno di quella guerra mondiale che a torto o ragione chiamavamo fredda. Che per circa quarant’anni ha impregnato le vite di singoli, famiglie e società al punto di farci credere di vivere in pace.
È stata un’esperienza professionale che mi ha portato a contatto della violenza di Stato in una società da definirsi in tutti i sensi occidentale e cristiana. Una violenza deliberatamente spinta oltre le categorie che caratterizzano l’umano fin dagli albori della civiltà: notturna, incomprensibile e terrorizzante, come se un intero paese fosse diventato lo scenario di una tardiva tragedia greca e, insieme, di un futuribile film dell’orrore.
Che i militari argentini non arretrassero di fronte a tortura e omicidio, lo si sapeva. Ma non si poteva immaginare che avessero deciso di applicare al proprio popolo le tecniche di sterminio del nazismo. Una soluzione finale, (disposiciòn final N.d.A.) diretta a liberare il paese da ogni opposizione, una volta per tutte.
I governi, che avevano gli strumenti per sapere e per intervenire, non fecero niente. Tentarono anzi di trarre il maggior vantaggio possibile dalla loro collaborazione alla strategia di oscuramento e negazione, necessaria perché i militari potessero portare tranquillamente a termine i loro piani.
Mi riferisco soprattutto alle grandi democrazie occidentali e in particolare all’Italia, che pure aveva in Argentina una delle sue più importanti collettività all’estero. Al Vaticano, che già aveva taciuto ai tempi del nazismo. Alla stessa Unione Sovietica: paradossalmente, dato che tutto si giustificava in nome della lotta contro la sovversione comunista.
Ma andrebbe approfondito anche il ruolo dei media nel loro insieme, almeno quelli italiani, che pure avevano saputo ben diversamente indirizzare l’opinione pubblica in occasione del golpe di Pinochet, appena tre anni prima.
E, in fin dei conti, il ruolo della stessa disorientante mitopoietica di un’epoca non poi così lontana.
In generale, ho evitato i nomi o ne ho messi di approssimativi a persone che, se ancora sono vive, certo non contano più. Ciascuno con le sue circostanze, non siamo stati altro che incerte comparse di una trama i cui protagonisti sono le mostruose realtà operanti sulla scena internazionale: gli Stati, cioè tutti noi, l’umanità come è strutturata.
Ho anche avuto difficoltà nel ricostruire l’ordine dei fatti narrati, data la tendenza dell’insieme dei ricordi a compenetrarsi nel tempo, schiacciandosi l’uno nell’altro come una macchina rottamata. Mi sono comunque sforzato di avvicinarmi per quanto possibile all’autenticità di una ormai semicancellata vicenda personale, sapendo di non poter escludere lacune ed errori, ma attenendomi al criterio di evitare le mistificazioni.
Nella speranza di contribuire a mettere a fuoco i meccanismi di potere accanto al cui operare mi è capitato di trovarmi. A far meglio conoscere un modo di fare la storia che può riprodursi, ancora e dovunque, sia pure con altre apparenze.
Nella convinzione che un mondo diverso sia possibile.»
Enrico Calamai – Niente asilo politico – Prologo
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24 marzo 1976 … è un diario retrodatato il libro di Enrico Calamai, Niente asilo politico.[1] «È il tentativo – scrive l’autore – di fissare l’intermittenza di ricordi (…)» . Un diario di un essere umano che di fronte all’inumano ha detto no rischiando la propria vita. Questo libro non è però solo un mero racconto di fatti accaduti: nel testo incontro un intenso interrogarsi sulla realtà umana e sulla caduta d’identità umana che porta all’orrore.
Calamai scrisse i suoi ricordi dopo «un silenzio durato oltre vent’anni, nel quale tutto si è andato oscurando.» e «A volte quei momenti mi riappaiono nitidi, come quando ci si ferma a guardare una vetrina. A volte scompaiono, come uno scoglio sommerso dalla marea.»
Nel suo diario l’ex viceconsole argentino fa una profonda riflessione sulla volontà di conoscenza e sull’annullamento della realtà: «(…) alla radice di ogni processo di conoscenza c’è un atto di volontà, a cui è possibile sottrarsi sotto l’effetto del terrore.» Questa frase mi ha ricordato la rabbia che montava contro una signora che, durante un incontro in cui si parlava della tragedia dei desaparecidos, non voleva che definissi Bergoglio, “complice di assassini”. Al mio incalzare che la metteva di fronte a fatti inoppugnabili compiti da Bergoglio, come l’orrore della sua frase, «Non è lo stesso, un bambino battezzato o un bambino non battezzato: non è lo stesso. Non è lo stesso una persona battezzata o una persona non battezzata.» lei rispondeva, con una serie di “questo non l’ho mai sentito dire”, “questo non l’ho mai letto”, “c’è gente che la pensa diversamente”, ecc..
Penso che sarà capitato a tutti di trovarsi di fronte a persone che agiscono questo annullamento della realtà. A me succede sin da quando ero ancora molto piccola. Mi chiedo il motivo che spingeva la signora in questione a sottrarsi alla conoscenza di fatti palesi; mi chiedo quale “terrore” spingesse questa persona a chiudere occhi e orecchie di fronte alla verità. Forse il terrore era generato dal sentire vacillare la sua pseudo identità umana strutturata sulla “pulsione di annullamento”[2]
La realtà a volte è dolorosa e leggere il diario di Enrico Calamai e come bere le acque di un fiume amaro su cui passa la storia di una intera generazione risucchiata in un gorgo di orrori e mai più riapparsa . Nei primi mesi del golpe, scrive Calamai, le persone che in maniera sempre più crescente scomparivano nel nulla venivano definite chupadas, «succhiate, risucchiate nel nulla».
Enrico Calamai, nel 1972, inizia a soli ventisette anni la sua avventura diplomatica in un’Argentina già molto attiva dal punto di vista culturale ed economico, ma ancora in mano a latifondisti, alle corporations americane e europee protette dai loro cani da guardia: Chiesa cattolica e Militari … le categorie sociali dei bellatores e degli oratores di cui parla Bernardo di Chiaravalle già nell’anno mille.
Dopo un breve periodo viene inviato in Cile. Durante quel periodo sperimenta le atrocità attuate da Pinochet su mandato dell’America con la complicità del «Vaticano, che già aveva taciuto ai tempi del nazismo».
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Tornato a Buenos Aires dopo una breve vacanza in Italia, Calamai avverte immediatamente che il clima sta cambiando: «Al mio ritorno a Buenos Ares, l’avvicinarsi del golpe è nell’aria. Su tutti indistintamente i giornali e canali tv, su questi ultimi più volte, appare una foto in cui si vede Isabelita con il microfono in mano, in mezzo ai suoi ministri. (…) Sembrano gli interpreti di uno spettacolo di cabaret, che salutano il pubblico mentre sta calando il sipario.»
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Ciò che però lo stranisce maggiormente è il modo in cui i porteños percepiscono ciò che sta avvenendo: «Quello che più mi colpisce è che sembrano vedervi qualcosa di tutto sommato positivo. La convinzione che caos e corruzione verranno spazzati via e la fallimentare situazione economica rapidamente ribaltata. C’è, nelle persone che frequento, un rifiuto a credere che quel che è successo in Cile stia per ripetersi. È un rifiuto contagioso, che zittisce l’angoscia di chi la pensa diversamente: l’onda espansiva del consenso, a disposizione di chi controlla l’informazione mediatica.»
Pochi giorni prima del 24 marzo 1976, data di inizio del golpe di Videla in Argentina, «vengo convocato a una riunione in ambasciata, per parlare della situazione. (…) Qualcuno esordisce facendo presente che l’ambasciatore, attualmente in missione nel Sud dell’Argentina, è stato avvertito pochi giorni prima – presumibilmente dai militari – che in effetti il golpe sta per arrivare. Ma si tratterà soltanto di una sospensione provvisoria delle libertà democratiche. Nulla a che vedere con il golpe di Pinochet.»
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Apro una parentesi « Qualcuno esordisce …» l’assenza di nomi non detti e caparbiamente nascosti tra le pieghe del tempo, non scandito da date precise che ci farebbero individuare le persone coinvolte nella sparizione dei ragazzi argentini, è una costante nel diario di Calamai. Mi sono chiesta perché. Forse è un pudore, una realtà umana che non permette alla vendetta di rinfocolare l’odio di un tempo, che prende forma nell’omissione dei nomi di chi aveva, a varie livelli di disumanità, perduto ciò che rende gli esseri umani tali . É come se quest’uomo, che è stato paragonato a Schindler, non volesse far individuare la persone abbiette che ha incontrato e contro le quali ha lottato riuscendo a strappare dai loro artigli sanguinolenti circa trecento persone tra cui cinquanta bambini.
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Non è una critica, me ne guarderei bene, è solo una domanda che la mia esigenza di verità mi spinge a fare. «In generale, – scrive – ho evitato i nomi o ne ho messi di approssimativi a persone che, se ancora sono vive, certo non contano più.» Chissà, forse quei nomi sono la sua assicurazione sulla vita.
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Il Segretario di Stato Usa Kissinger con Pinochet
In quella riunione di cui parlavo, Calamai viene a sapere che «Non sarà tollerata la presenza di rifugiati nelle ambasciate: quella che si sta preparando è soltanto un’operazione di polizia di vasta portata, necessaria per liberare l’Argentina dalla lotta armata una volta per tutte. Da sovversivi che sono spietati assassini, criminali comuni. E, in quanto tali, non hanno alcun diritto all’asilo politico.
L’ambasciata d’Italia farà immediatamente installare un sistema di doppie porte, apribile soltanto dall’interno e intercomunicante con la portineria, in modo da impedire l’accesso a persone sospettate di voler chiedere l’asilo politico.»
Calamai non deve scegliere se obbedire o meno a queste direttive, ha già deciso. Il suo rifiuto è istantaneo quanto la pulsione contro ciò che non è umano alla nascita. Tacitamente gli si chiede una : «una concordanza di vedute che fin dal primo momento mi risulta incomprensibile e inaccettabile. (…) Non so fare altro che ascoltare, cercando di non tradirmi. (…) Ma mi è anche chiaro che quanto si pretende non è pretendibile».
Così inizia un braccio di ferro tanto feroce quanto silente tra quest’uomo che non poteva che essere umano e coloro che avevano abdicato. Andando contro le direttive, mai ufficializzate, cerca di utilizzare tutti gli strumenti della diplomazia per salvare i perseguitati politici che, aiutati, riescono a varcare le porte del Consolato e sedersi alla sua scrivania.
Il suo comportamento, tranne che per pochi amici, era considerato da delirante. Lui vedeva ciò che non c’era, ciò che gli altri, anche i colleghi, dicevano che non c’era: «Era facile fingere di non vedere. – scrive Calamai – A parte qualche posto di blocco, la vita in apparenza continuava normalmente. Code al cinema, ristoranti pieni. I militari avevano canali di comunicazione con tutti i centri di potere, con il grande capitale, con le compagnie straniere. Si prodigavano per far credere che le pattuglie in strada servissero a sradicare la guerriglia, a proteggere la città dalle bande di criminali».
A volte, scrive «Gli avvenimenti mi sovrastano a ondate, mi piombano addosso all’improvviso, spazzano la mia esistenza. Ma miracolosamente riesco a non capovolgermi a tenere il ritmo, a non affondare. E a mantenere la rotta, sapendo che non si tratta di semplici avvenimenti, né di idee da difendere, ma di un carico unico che è anche quanto di più prezioso conosco: esseri umani, vite, in tutta la loro vulnerabilità»
Il “Nobel per la pace” Kissinger con Jorge Videla
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Intanto il Plan Condor[3], si radicalizza e diventa sempre più difficile far uscire dai paesi che vi aderiscono i perseguitati politici.
Due cose però mi hanno colpito allo stomaco più di ogni altra cosa. Conoscevo bene le vicende argentine ma due colpi particolarmente forti sono arrivati inaspettati: il fatto atroce, narrato anche in uno speciale televisivo, che la Disposiciòn Final, voleva l’eliminazione totale della gioventù non perfettamente allineata con i “valori della patria” stabiliti, in comune accordo, dalla Chiesa cattolica e dai militari golpisti.
Il secondo aspetto di cui non ero a conoscenza, è che l’Unione sovietica, che aveva rapporti commerciali con l’Argentina, sapendo benissimo cosa stava accadendo in quel paese, aveva dato ordine ai partiti comunisti occidentali, compreso quello argentino, di mitigare le notizie su ciò che stava accadendo in Argentina.
I pochi articoli che il fratello di Calamai, che in Italia tentava di aprire uno spiraglio nel muro di gomma creato dai mezzi di informazione, riesce a scrivere su Rinascita «(…) producono un effetto immediato e inatteso: le rimostranze del Partito comunista argentino, che preoccupato della propria sopravvivenza politica, (mai messa in discussione dai militari golpisti N.d.A.) ha moltiplicato i contatti con Mosca e con i partiti fratelli , compreso quello italiano, sostenendo che Videla è un moderato, il male minore nell’attuale situazione argentina».
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