• Gramsci – Lettere dal carcere e fiabe tradotte per i figli (Lettera VII)

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    Giulia Schucht

     Il topo e la montagna

     

    Carissima Giulia, puoi domandare a Delio, da parte mia, quale dei racconti di Puskin ami di più. Io veramente ne conosco solo due: Il galletto d’oro e Il pescatore.

     

    Vorrei ora raccontare a Delio una novella del mio paese che mi pare interessante. Te la riassumo e tu gliela svolgerai, a lui e a Giuliano.

     

    Un bambino dorme. C’è un bricco di latte pronto per il suo risveglio. Un topo si beve il latte.  Il bambino, non avendo latte, strilla, e la mamma che non serve a nulla corre dalla capra per avere del latte. La capra gli darà il latte se avrà l’erba da mangiare. Il topo va dalla campagna per l’erba e la campagna arida vuole l’acqua. Il topo va dalla fontana. La fontana è stata rovinata dalla guerra e l’acqua si disperde: vuole il maestro muratore; questo vuole le pietre. Il topo va dalla montagna e avviene un sublime dialogo tra il topo e la montagnache è stata disboscata dagli speculatori e mostra dappertutto le sue ossa senza terra.

     

    Il topo racconta tutta la storia e promette che il bambino cresciuto ripianterà i pini, querce, castagni ecc. Così la montagna dà le pietre ecc. e il bimbo ha tanto latte che si lava anche col latte.

    Cresce, pianta gli alberi, tutto muta; spariscono le ossa della montagna sotto il nuovo

    humus, la precipitazione atmosferica ridiventa regolare perché gli alberi trattengono i vapori e impediscono ai torrenti di devastare la pianura. Insomma il topo concepisce un vero e proprio piano di lavoro, organico e adatto a un paese rovinato dal disboscamento.

     

    Carissima Giulia, devi proprio raccontare questa novella e poi comunicarmi l’impressione

    dei bimbi.

    Ti abbraccio teneramente.

    Antonio

    Julka_Schucht_Delio_Giuliano_Gramsci

    Rumpelstilzchen1)

     –

    Fiaba dei fratelli Grimm tradotta da Antonio Gramsci per i figli

     –

    Viveva un tempo un mugnaio che era molto povero, ma aveva una figlia bellissima. Un giorno il mugnaio ebbe occasione di parlare col re, e per darsi delle arie d’importanza disse: «Ho una figlia che sa filare la paglia in oro». Il re disse al mugnaio:

    «È un’arte che mi piace assai, se tua figlia è così abile come dici, domani conducila alla reggia: la voglio mettere alla prova».

     

    Appena la fanciulla si presentò alla reggia, il re l’accompagnò fino ad una camera piena zeppa di paglia, le diede il filatoio e l’arcolaio e le disse: «Mettiti subito al lavoro; se durante questa notte non avrai filato questa paglia in oro, sarai condannata a morte».

     

    Poi chiuse la porta e la lasciò sola.

     

    La povera mugnaia si sedette per riflettere, ma pensa e ripensa, non riusciva a trovare nessun modo di salvare la vita: ella non comprendeva neppure cosa volesse dire «filar la paglia in oro». La sua angoscia andò sempre aumentando, finché scoppiò in singhiozzi.

     

    D’un tratto si aprì la porta, entrò un piccolo coboldo2 e disse:

    «Buona sera mugnaia, perché piangete così forte?».

    «Ahimè – rispose la fanciulla, – per domattina debbo filare tutta questa paglia in oro, e non ci capisco nulla». Il coboldo disse: «Cosa mi darete, se ve lo filo io?».

    «La mia collana».

    Il coboldo prese la collana, si sedette al filatoio e drr, drr, drr, in tre movimenti la spola era piena. La cambiò e drr, drr, drr, tre movimenti e anche la seconda era piena, e così via in modo che quando giunse il mattino tutta la paglia era filata e tutte le spole erano piene di fili d’oro.

     

    All’alba venne il re, vide tutto quell’oro, si stupì ed era contento, ma il suo cuore era ancora avido di ricchezza; fece condurre la mugnaia in un’altra camera ancora più grande, piena colma di paglia e ordinò che fosse filata nella notte, pena la vita.

     

    La fanciulla non sapeva di nuovo come fare e riprese a piangere: di nuovo si aprì la porta, riapparve il piccolo coboldo, che disse: «Cosa mi dai, se ti filo la paglia in oro?».

    «Il mio anellino», rispose la fanciulla.

     

    Il coboldo prese l’anello, la ruota cominciò a ronzare e al mattino tutto quel gran mucchio di paglia era filato in bellissimo oro lucente. Il re molto si rallegrò per tanta ricchezza, ma non era ancora sazio. Condusse la mugnaia in una camera ancora più vasta, e le disse mostrandole tutta quella enorme quantità di paglia: «Devi filarla tutta in questa notte; se ci riuscirai, ti sposerò e sarai regina», e intanto pensava: «Certo è solo la figlia di un mugnaio, ma dove potrei trovare una moglie più ricca?». Appena la fanciulla fu sola, apparve per la terza volta il coboldo e disse: «Cosa mi dai se anche questa volta ti filo la paglia?».

    «Non ho più niente da poterti dare!», rispose la fanciulla.

    «Ebbene, promettimi che quando sarai regina mi darai il tuo primo figlio».

    «Chissà cosa potrà ancora succedere», pensò la figlia del mugnaio, e d’altronde non sapeva come uscire dalla terribile necessità; perciò promise al coboldo ciò che aveva domandato e il coboldo filò ancora la paglia in oro. E quando al mattino il re venne e trovò tutto come aveva desiderato, sposò la bella figlia del mugnaio, che diventò regina.

     

    Un anno dopo ella mise al mondo un bel bambino e non pensava neanche più al coboldo; ma questi entrò all’improvviso nella sua stanza e disse: «Dammi dunque ciò che mi hai promesso».

     

    La regina inorridì e offrì al coboldo tutte le ricchezze del reame, se le avesse lasciato il figlio; ma il coboldo disse: «No, preferisco una creatura vivente a tutti i tesori del mondo».

     

    La regina cominciò a gemere e a piangere così pietosamente che il coboldo ne ebbe compassione.

    «Ti lascio tre giorni di tempo – disse, – se riuscirai a scoprire il mio nome, conserverai tuo figlio».

     

    Per tutta la notte la regina si sforzò di ricordare tutti i nomi che avesse mai sentito, e mandò un messaggero per il paese, che doveva informarsi in lungo e in largo di tutti i nomi possibili.

     

    Quando all’indomani venne il coboldo, incominciò con Gasparo, Melchiorre e Baldassarre e via via, tutti i nomi che sapeva, uno dopo l’altro, ma ad ognuno il coboldo rispondeva: «Non mi chiamo così». Il secondo giorno la regina fece domandare in tutto il vicinato, come la gente si chiamasse e disse al coboldo tutti i nomi più straordinari e inusati: «Ti chiami forse Catarrino, Saltamontone, Trombatore?». Ma egli rispondeva sempre: «Non mi chiamo così».

     

    Il terzo giorno ritornò il messaggero e raccontò: «Non ho potuto trovare neanche un nuovo nome, ma mentre attraversavo un’alta montagna nel paese di Pastinacca dove la volpe augura la buona notte alle galline, vidi una casettina e dinanzi alla casa era acceso un bel fuoco e intorno al fuoco ballava un omettino molto buffo che girando su una sola gamba gridava:

     

    Oggi faccio il pane, domani la birra,

    dopodomani porto via il figlio alla regina;

    ah, che piacere, nessuno sa

    che mi chiamo Rumpelstilzchen!».

     

    Si può immaginare come la regina diventò allegra, quando sentì quel nome.

    Quando poco dopo entrò il coboldo e domandò: «Dunque, signora regina, come mi chiamo?», ella prima disse: «Ti chiami forse Giovanni?».

    «No». «Ti chiami Giuseppe?». «No». «Ti chiami per caso Rumpelstilzchen?».

    «Te l’ha detto il diavolo! Te l’ha detto il diavolo!», gridò il coboldo e per la collera batté il piede destro per terra così forte che tutta la gamba sprofondò fino al busto; allora, nella sua ira, il coboldo prese il piede destro con le due mani e si spaccò in due pezzi.

     

    1) Bizzarro nome, probabilmente coniato dai fratelli Grimm, composto sul verbo rumpeln, «far chiasso».

    2) coboldo: folletto, propriamente protettore del focolare domestico

     

    Nota:  i testi proposti qui sono tratti da

    http://www.liberliber.it/mediateca/libri/g/gramsci/l_albero_del_riccio/pdf/l_albe_p.pdf

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