• Luigi Pirandello-:«Come e perché ho scritto i “Sei personaggi”» – La servetta Fantasia

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    Luigi-Pirandello

     

    Questo testo è stato pubblicato per la prima volta su «Comoedia» nel gennaio 1925 col titolo Come e perché ho scritto i «Sei personaggi» – e ora è sempre presente, in forma di prefazione, in tutte le pubblicazioni di “Sei personaggi in cerca di autore”.

    Luigi Pirandello

    È da tanti anni a servizio della mia arte (ma come fosse da jeri) una servetta sveltissima e non per tanto nuova sempre del mestiere.

    Si chiama Fantasia.

    Un po’ dispettosa e beffarda, se ha il gusto di vestir di nero, nessuno vorrà negare che non sia spesso alla bizzarra, e nessuno credere che faccia sempre e tutto sul serio a un modo solo. Si ficca una mano in tasca; ne cava un berretto a sonagli; se lo caccia in capo, rosso come una cresta, e scappa via. Oggi qua; domani là. E si diverte a portarmi in casa, perché io ne tragga novelle e romanzi e commedie, la gente più scontenta del mondo, uomini, donne, ragazzi, avvolti in casi strani da cui non trovan più modo a uscire; contrariati nei loro disegni; frodati nelle loro speranze; e coi quali insomma è spesso veramente una gran pena trattare.

    Orbene questa mia servetta Fantasia ebbe, parecchi anni or sono, la cattiva ispirazione o il malaugurato capriccio di condurmi in casa tutta una famiglia, non saprei dire dove né come ripescata, ma da cui, a suo credere, avrei potuto cavare il soggetto per un magnifico romanzo.

    Mi trovai davanti un uomo sulla cinquantina, in giacca nera e calzoni chiari, dall’aria aggrottata e dagli occhi scontrosi per mortificazione; una povera donna in gramaglie vedovili, che aveva per mano una bimbetta di quattr’anni da un lato e con un ragazzo di poco più di dieci dall’altro; una giovinetta ardita e procace, vestita anch’essa di nero ma con uno sfarzo equivoco e sfrontato, tutta un fremito di gajo sdegno mordente contro quel vecchio mortificato e contro un giovane sui vent’anni che si teneva discosto e chiuso in sé, come se avesse in dispetto tutti quanti. Insomma quei sei personaggi come ora si vedono apparire sul palcoscenico, al principio della commedia. E or l’uno or l’altro, ma anche spesso l’uno sopraffacendo l’altro, prendevano a narrarmi i loro tristi casi, a gridarmi ciascuno le proprie ragioni, ad avventarmi in faccia le loro scomposte passioni, press’a poco come ora fanno nella commedia al malcapitato Capocomico.

    Quale autore potrà mai dire come e perché un personaggio gli sia nato nella fantasia? Il mistero della creazione artistica è il mistero stesso della nascita naturale. Può una donna, amando, desiderare di diventar madre; ma il desiderio da solo, per intenso che sia, non può bastare. Un bel giorno ella si troverà a esser madre, senza un preciso avvertimento di quando sia stato. Così un artista, vivendo, accoglie in sé tanti germi della vita, e non può mai dire come e perché, a un certo momento, uno di questi germi vitali gli si inserisca nella fantasia per divenire anch’esso una creatura viva in un piano di vita superiore alla volubile esistenza quotidiana. Posso soltanto dire che, senza sapere d’averli punto cercati, mi trovai davanti, vivi da poterli toccare, vivi da poterne udire perfino il respiro, quei sei personaggi che ora si vedono sulla scena. E attendevano, lì presenti, ciascuno col suo tormento segreto e tutti uniti dalla nascita e dal viluppo delle vicende reciproche, ch’io li facessi entrare nel mondo dell’arte, componendo delle loro persone, delle loro passioni e dei loro casi un romanzo, un dramma o almeno una novella.

    Nati vivi, volevano vivere.

    Ora bisogna sapere che a me non è mai bastato rappresentare una figura d’uomo o di donna, per quanto speciale e caratteristica, per il solo gusto di rappresentarla; narrare una particolar vicenda, gaja o triste, per il solo gusto di narrarla; descrivere un paesaggio per il solo gusto di descriverlo.

    Ci sono certi scrittori (e non pochi) che hanno questo gusto e, paghi, non cercano altro. Sono scrittori di natura più propriamente storica.

    Ma ve ne sono altri che, oltre questo gusto, sentono un più profondo bisogno spirituale, per cui non ammettono figure, vicende, paesaggi che non s’imbevano, per così dire, d’un particolar senso della vita, e non acquistino con esso un valore universale. Sono scrittori di natura più propriamente filosofica.

    Io ho la disgrazia d’appartenere a questi ultimi.

    Odio l’arte simbolica, in cui la rappresentazione perde ogni movimento spontaneo per diventar macchina, allegoria; sforzo vano e malinteso, perché il solo fatto di dar senso allegorico a una rappresentazione dà a veder chiaramente che già si tien questa in conto di favola che non ha per se stessa alcuna verità né fantastica né effettiva, e che è fatta per la dimostrazione di una qualunque verità morale. Quel bisogno spirituale di cui io parlo non si può appagare, se non qualche volta e per un fine di superiore ironia (com’è per esempio nell’Ariosto) di un tal simbolismo allegorico. Questo parte da un concetto, è anzi un concetto che si fa, o cerca di farsi, immagine; quello cerca invece nell’immagine, che deve restar viva e libera di sé in tutta la sua espressione, un senso che gli dia valore.

    Ora, per quanto cercassi, io non riuscivo a scoprir questo senso in quei sei personaggi. E stimavo perciò che non mettesse conto farli vivere.

    Pensavo fra me e me: «Ho già afflitto tanto i miei lettori con centinaja e centinaja di novelle: perché dovrei affliggerli ancora con la narrazione dei tristi casi di questi sei disgraziati?».

    E, così pensando, li allontanavo da me. O piuttosto, facevo di tutto per allontanarli.

    Ma non si dà vita invano a un personaggio.

    Creature del mio spirito, quei sei già vivevano d’una vita che era la loro propria e non più mia, d’una vita che non era più in mio potere negar loro.

    Tanto è vero che, persistendo io nella mia volontà di scacciarli dal mio spirito, essi, quasi già del tutto distaccati da ogni sostegno narrativo, personaggi d’un romanzo usciti per prodigio dalle pagine del libro che li conteneva, seguitavano a vivere per conto loro; coglievano certi momenti della mia giornata per riaffacciarsi a me nella solitudine del mio studio, e or l’uno or l’altro, ora due insieme, venivano a tentarmi, a propormi questa o quella scena da rappresentare o da descrivere, gli effetti che se ne sarebbero potuti cavare, il nuovo interesse che avrebbe potuto destare una certa insolita situazione, e via dicendo.

    Per un momento io mi lasciavo vincere; e bastava ogni volta questo mio condiscendere, questo lasciarmi prendere per un po’, perché essi ne traessero un nuovo profitto di vita, un accrescimento d’evidenza, e anche, perciò, d’efficacia persuasiva su me. E così a mano a mano diveniva per me tanto più difficile il tornare a liberarmi da loro, quanto a loro più facile il tornare a tentarmi. Ne ebbi, a un certo punto, una vera e propria ossessione. Finché, tutt’a un tratto, non mi balenò il modo d’uscirne.

    O perché mi dissi non rappresento questo novissimo caso d’un autore che si rifiuta di far vivere alcuni suoi personaggi, nati vivi nella sua fantasia, e il caso di questi personaggi che, avendo ormai infusa in loro la vita, non si rassegnano a restare esclusi dal mondo dell’arte? Essi si sono già staccati da me; vivono per conto loro; hanno acquistato voce e movimento; sono dunque già divenuti di per se stessi, in questa lotta che han dovuto sostenere con me per la loro vita, personaggi drammatici, personaggi che possono da soli muoversi e parlare; vedono già se stessi come tali; hanno imparato a difendersi da me; sapranno ancora difendersi dagli altri. E allora, ecco, lasciamoli andare dove son soliti d’andare i personaggi drammatici per aver vita: su un palcoscenico. E stiamo a vedere che cosa ne avverrà.

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    Così ho fatto. Ed è avvenuto naturalmente quel che doveva avvenire: un misto di tragico e di comico, di fantastico e di realistico, in una situazione umoristica affatto nuova e quanto mai complessa; un dramma che da sé per mezzo dei suoi personaggi, spiranti parlanti semoventi, che lo portano e lo soffrono in loro stessi, vuole a ogni costo trovare il modo d’essere rappresentato; e la commedia del vano tentativo di questa realizzazione scenica improvvisa. Dapprima, la sorpresa di quei poveri attori d’una Compagnia drammatica che stan provando, di giorno, una commedia su un palcoscenico sgombro di quinte e di scene; sorpresa e incredulità, nel vedersi apparir davanti quei sei personaggi che si annunziano per tali in cerca d’autore; poi, subito dopo, per quell’improvviso mancare della Madre velata di nero, il loro istintivo interessamento al dramma che intravedono in lei e negli altri componenti quella strana famiglia, dramma oscuro, ambiguo, che viene ad abbattersi così impensatamente su quel palcoscenico vuoto e impreparato a riceverlo; e man mano il crescere di questo interessamento al prorompere delle passioni contrastanti ora nel Padre, ora nella Figliastra, ora nel Figlio, ora in quella povera Madre; passioni che cercano, come ho detto, di sopraffarsi a vicenda, con una tragica furia dilaniatrice.

    Ed ecco che quel senso universale cercato invano dapprima in quei sei personaggi, ora essi, andati da sé sul palcoscenico, riescono a trovarlo in sé nella concitazione della lotta disperata che ciascuno fa contro l’altro e tutti contro il Capocomico e gli attori che non li comprendono.

    Senza volerlo, senza saperlo, nella ressa dell’animo esagitato, ciascun d’essi, per difendersi dalle accuse dell’altro, esprime come sua viva passione e suo tormento quelli che per tanti anni sono stati i travagli del mio spirito: l’inganno della comprensione reciproca fondato irrimediabilmente sulla vuota astrazione delle parole; la molteplice personalità d’ognuno secondo tutte le possibilità d’essere che si trovano in ciascuno di noi; e infine il tragico conflitto immanente tra la vita che di continuo si muove e cambia e la forma che la fissa, immutabile.

    Due soprattutto fra quei sei personaggi, il Padre e la Figliastra, parlano di questa atroce inderogabile fissità della loro forma, nella quale l’uno e l’altra vedono espresse per sempre, immutabilmente la loro essenzialità, che per l’uno significa castigo e per l’altra vendetta; e la difendono contro le smorfie fittizie e la incosciente volubilità degli attori e cercano d’imporla al volgare Capocomico che vorrebbe alterarla e accomodarla alle così dette esigenze del teatro.

    Non tutti e sei i personaggi stanno in apparenza sullo stesso piano di formazione, ma non perché vi siano fra essi figure di primo o di secondo piano, cioè «protagonisti» e «macchiette» che allora sarebbe elementare prospettiva, necessaria a ogni architettura scenica o narrativa e non perché non siano tutti, per quello che servono, compiutamente formati. Sono, tutti e sei, allo stesso punto di realizzazione artistica, e tutti e sei, sullo stesso piano di realtà, che è il fantastico della commedia. Se non che il Padre, e la Figliastra e anche il Figlio sono realizzati come spirito; come natura è la Madre; come, «presenze» il Giovinetto che guarda e compie un gesto e la Bambina del tutto inerte. Questo fatto crea fra essi una prospettiva di nuovo genere. Inconsciamente avevo avuto l’impressione che mi bisognasse farli apparire alcuni più realizzati (artisticamente), altri meno, altri appena appena raffigurati come elementi d’un fatto da narrare o da rappresentare: i più vivi, i più compiutamente creati, il Padre e la Figliastra, che vengono naturalmente più avanti e guidano e si trascinano appresso il peso quasi morto degli altri: uno, il Figlio, riluttante; l’altro, la Madre, come una vittima rassegnata, tra quelle due creaturine che quasi non hanno alcuna consistenza se non appena nella loro apparenza e che han bisogno di essere condotte per mano.

    E infatti! Intatti dovevano proprio apparire ciascuno in quello stadio di creazione raggiunto nella fantasia dell’autore al momento che questi li volle scacciare da sé.

    Se ora ci rifletto, l’avere intuito questa necessità, l’aver trovato, inconsciamente, il modo di risolverla con una nuova prospettiva, e il modo con cui l’ho ottenuta, mi sembrano miracoli. Il fatto è che la commedia fu veramente concepita in un’illuminazione spontanea della fantasia, quando, per prodigio, tutti gli elementi dello spirito si rispondono e lavorano a un divino accordo. Nessun cervello umano, lavorandoci a freddo, per quanto ci si fosse travagliato, sarebbe mai riuscito a penetrare e a poter soddisfare tutte le necessità della sua forma. Perciò le ragioni che io dirò per chiarirne i valori non siano intese come intenzioni da me preconcette quando mi accinsi alla sua creazione e di cui ora mi assuma la difesa, ma solo come scoperte che io stesso, poi, a mente riposata, ho potuto fare.

    Io ho voluto rappresentare sei personaggi che cercano un autore. Il dramma non riesce a rappresentarsi appunto perché manca l’autore che essi cercano; e si rappresenta invece la commedia di questo loro vano tentativo, con tutto quello che essa ha di tragico per il fatto che questi sei personaggi sono stati rifiutati.

    Ma si può rappresentare un personaggio, rifiutandolo? Evidentemente, per rappresentarlo, bisogna invece accoglierlo nella fantasia e quindi esprimerlo. E io difatti ho accolto e realizzato quei sei personaggi: li ho però accolti e realizzati come rifiutati: in cerca d’altro autore.

    Bisogna ora intendere che cosa ho rifiutato di essi; non essi stessi, evidentemente; bensì il loro dramma, che, senza dubbio, interessa loro sopra tutto, ma non interessava affatto me, per le ragioni già accennate.

    E che cos’è il proprio dramma, per un personaggio?

    Ogni fantasma, ogni creatura d’arte, per essere, deve avere il suo dramma, cioè un dramma di cui esso sia personaggio e per cui è personaggio. Il dramma è la ragion d’essere del personaggio; è la sua funzione vitale: necessaria per esistere.

    Io, di quei sei, ho accolto dunque l’essere, rifiutando la ragion d’essere; ho preso l’organismo affidando a esso, invece della funzione sua propria, un’altra funzione più complessa e in cui quella propria entrava appena come dato di fatto. Situazione terribile e disperata specialmente per i due il Padre e la Figliastra che più degli altri tengono a vivere e più degli altri han coscienza di essere personaggi, cioè assolutamente bisognosi d’un dramma e perciò del proprio, che è il solo che essi possano immaginare a se stessi e che intanto vedono rifiutato; situazione «impossibile», da cui sentono di dover uscire a qualunque costo, per questione di vita o di morte. È ben vero che io, di ragion d’essere, di funzione, gliene ho data un’altra, cioè appunto quella situazione «impossibile», il dramma dell’essere in cerca d’autore, rifiutati: ma che questa sia una ragion d’essere, che sia diventata, per essi che già avevano una vita propria, la vera funzione necessaria e sufficiente per esistere, neanche possono sospettare. Se qualcuno glielo dicesse, non lo crederebbero; perché non è possibile credere che l’unica ragione della nostra via sia tutta in un tormento che ci appare ingiusto e inesplicabile.

    Non so immaginare, perciò, con che fondamento mi fu mosso l’appunto che il personaggio del Padre non era quello che avrebbe dovuto essere, perché usciva dalla sua qualità e posizione di personaggio invadendo, a volte, e facendo sua l’attività dell’autore. Io che intendo chi non m’intende, capisco che l’appunto viene dal fatto che quel personaggio esprime come proprio un travaglio di spirito che è riconosciuto essere il mio. Il che è ben naturale e non significa assolutamente nulla. A parte la considerazione che quel travaglio di spirito nel personaggio del Padre deriva, ed è sofferto e vissuto, da cause e per ragioni che non hanno nulla da vedere col dramma della mia esperienza personale, considerazione che da sola toglierebbe ogni consistenza alla critica, voglio chiarire che una cosa è il travaglio immanente del mio spirito, travaglio che io posso legittimamente purché gli torni organico riflettere in un personaggio; altra cosa è l’attività del mio spirito svolta nella realizzazione di questo lavoro, l’attività cioè che riesce a formare il dramma di quei sei personaggi in cerca d’autore. Se il Padre fosse partecipe di questa attività, se concorresse a formare il dramma dell’essere quei personaggi senza autore, allora sì, e soltanto allora, sarebbe giustificato il dire che esso sia a volte l’autore stesso, e perciò non sia quello che dovrebbe essere. Ma il Padre, questo suo essere «personaggio in cerca d’autore», lo soffre e non lo crea, lo soffre come una fatalità inesplicabile e come una situazione a cui cerca con tutte le forze di ribellarsi e di rimediare: proprio dunque «personaggio in cerca d’autore» e niente di più, anche se esprima come suo il travaglio del mio spirito. Se esso fosse partecipe dell’attività dell’autore, si spiegherebbe perfettamente quella fatalità; si vedrebbe cioè accolto, sia pure come personaggio rifiutato, ma pur sempre accolto nella matrice fantastica d’un poeta e non avrebbe più ragione di patire quella disperazione di non trovare chi affermi e componga la sua vita di personaggio: voglio dire che accetterebbe assai di buon grado la ragion d’essere che gli dà l’autore e senza rimpianti rinunzierebbe alla propria, mandando all’aria quel Capocomico e quegli attori a cui, come a unico scampo, è invece ricorso.

    C’è un personaggio, quello della Madre, a cui invece non importa affatto aver vita, considerato l’aver vita come fine a se stesso. Non ha il minimo dubbio, lei, di non esser già viva; né le è mai passato per la mente di domandarsi come e perché, in che modo, lo sia. Non ha, insomma, coscienza d’essere personaggio: in quanto non è mai, neanche per un momento, distaccata dalla sua «parte». Non sa d’avere una «parte».

    Questo le torna perfettamente organico. Infatti la sua parte di Madre non comporta per se stessa, nella sua «naturalità», movimenti spirituali; ed ella non vive come spirito: vive in una continuità di sentimento che non ha mai soluzione, e perciò non può acquistare coscienza della sua vita, che è quanto dire del suo esser personaggio. Ma, con tutto ciò, anch’ella cerca, a modo suo e per i suoi fini, un autore; a un certo punto sembra contenta d’essere stata condotta davanti al Capocomico. Forse perché anch’ella spera di aver vita da costui? No: perché spera che il Capocomico le faccia rappresentare una scena col Figlio, nella quale metterebbe tanta della sua propria vita; ma è una scena che non esiste, che non ha mai potuto, né potrebbe, aver luogo. Tant’ella è incosciente del suo esser personaggio, cioè della vita che può avere, fissata e determinata tutta, attimo per attimo, in ogni gesto e in ogni parola.

    Ella si presenta con gli altri personaggi sul palcoscenico, ma senza capire quello che essi le fanno fare. Evidentemente immagina che la smania di aver vita da cui sono assaliti il marito e la figlia e per cui anch’ella si ritrova su un palcoscenico, altro non sia che una delle solite incomprensibili stramberie di quell’uomo tormentato e tormentatore, e orribile, orribile, una nuova, equivoca levata di testa di quella sua povera ragazza traviata. È del tutto passiva. I casi della sua vita e il valore che questi hanno assunto agli occhi di lei, il suo carattere stesso, sono tutte cose che si dicono dagli altri, e che ella solo una volta contraddice, perché l’istinto materno insorge e si ribella in lei, per chiarire che non volle affatto abbandonare né il figlio né il marito; perché il figlio le fu tolto e il marito la costrinse all’abbandono. Ma rettifica dati di fatto: non sa e non si spiega nessuna cosa.

    È, insomma, natura. Una natura fissata in una figura di madre.

    Questo personaggio mi ha dato una soddisfazione di nuovo genere, che non va taciuta. Quasi tutti i miei critici, invece di definirlo, al solito, «disumano» che sembra sia il peculiare e incorreggibile carattere di tutte indistintamente le mie creature    hanno avuto la bontà di notare, «con vero compiacimento», che finalmente dalla mia fantasia era uscita una figura umanissima. La lode me la spiego in questo modo: che, essendo la mia povera Madre tutta legata al suo atteggiamento naturale di Madre, senza possibilità di liberi movimenti spirituali, cioè quasi un ciocco di carne compiutamente viva in tutte le sue funzioni di procreare, allattare, curare e amare la sua prole, senza punto bisogno perciò di far agire il cervello, essa realizzi in sé il vero e perfetto «tipo umano». Certo è così, perché nulla pare che sia più superfluo dello spirito in un organismo umano.

    Ma i critici, pur con quella lode, si sono voluti sbrigare della Madre senza curarsi di penetrare il nucleo di valori poetici che il personaggio, nella commedia, sta a significare.

    Umanissima figura, sì, perché priva di spirito, cioè incosciente d’essere quello che è o incurante di spiegarselo. Ma il fatto d’ignorare d’esser personaggio non le toglie già di esserlo. Ecco il suo dramma, nella mia commedia. E l’espressione più viva di esso balza, in quel suo grido al Capocomico che le fa considerare come tutto sia già avvenuto e perciò non possa più esser motivo di nuovo pianto:   «No, avviene ora, avviene sempre! Il mio strazio non è finto, signore! Io sono viva e presente, sempre, in ogni momento del mio strazio, che si rinnova vivo e presente sempre». Questo ella sente, senza coscienza, e perciò come cosa inesplicabile: ma lo sente con tanta terribilità che non pensa nemmeno possa essere cosa da spiegare a se stessa o agli altri. Lo sente e basta. Lo sente come dolore, e questo dolore, immediato, grida. Così in lei si riflette la fissità della sua vita in una forma, che, in altro modo, tormenta il Padre e la Figliastra, Questi, spirito; ella, natura: lo spirito vi si ribella, o come può, cerca di profittarne; la natura, se non sia aizzata dagli stimoli del senso, ne piange.

    Il conflitto immanente tra il movimento vitale e la forma è condizione inesorabile non solo dell’ordine spirituale, ma anche di quello naturale. La vita che s’è fissata, per essere, nella nostra forma corporale, a poco a poco uccide la sua forma. Il pianto di questa natura fissata è l’irreparabile, continuo invecchiare del nostro corpo. Il pianto della Madre è allo stesso modo passivo e perpetuo. Mostrato attraverso tre facce, invalorato in tre drammi diversi e contemporanei, quell’immanente conflitto trova così nella commedia la più compiuta espressione. E di più, la Madre dichiara anche il particolare valore della forma artistica: forma che non comprende e non uccide la sua vita, e che la vita non consuma; in quel suo grido al Capocomico. Se il Padre e la Figliastra riattaccassero centomila volte di seguito la loro scena, sempre, al punto fissato, all’attimo in cui la vita dell’opera d’arte dev’essere espressa con quel suo grido, sempre esso risonerebbe: inalterato e inalterabile nella sua forma, ma non come una ripetizione meccanica, non come un ritorno obbligato da necessità esteriori, ma bensì, ogni volta, vivo e come nuovo, nato improvviso così per sempre: imbalsamato vivo nella sua forma immarcescibile. Così, sempre, ad apertura di libro, troveremo Francesca viva confessare a Dante il suo dolce peccato; e se centomila volte di seguito tomeremo a rileggere quel passo, centomila volte di seguito Francesca ridirà le sue parole, non mai ripetendole meccanicamente, ma dicendole ogni volta per la prima volta con sì viva e improvvisa passione che Dante ogni volta ne tramortirà. Tutto ciò che vive, per il fatto che vive, ha forma, e per ciò stesso deve morire: tranne l’opera d’arte, che appunto vive per sempre, in quanto è forma.

    La nascita d’una creatura della fantasia umana, nascita che è il passo per la soglia tra il nulla e l’eternità, può avvenire anche improvvisa, avendo per gestazione una necessità. In un dramma immaginato serve un personaggio che faccia o dica una certa cosa necessaria; ecco quel personaggio è nato, ed è quello, preciso, che doveva essere. Così nasce Madama Pace fra i sei personaggi, e pare un miracolo, anzi, un trucco su quel palcoscenico rappresentato realisticamente. Ma non è un trucco. La nascita è reale, il nuovo personaggio è vivo non perché fosse già vivo, ma perché felicemente nato, come appunto comporta la sua natura di personaggio, per così dire, «obbligato». È avvenuta perciò una spezzatura, un improvviso mutamento del piano di realtà della scena, perché un personaggio può nascere a quel modo soltanto nella fantasia del poeta, non certo sulla tavole d’un palcoscenico. Senza che nessuno se ne sia accorto, ho cambiato di colpo la scena: la ho riaccolta in quel momento nella mia fantasia pur non togliendola di sotto gli occhi agli spettatori; ho cioè mostrato ad essi, in luogo del palcoscenico, la mia fantasia in atto di creare, sotto specie di quel palcoscenico stesso. Il mutarsi improvviso e incontrollabile di una apparenza da un piano di realtà a un altro è un miracolo della specie di quelli compiuto dal Santo che fa muovere la sua statua, che in quel momento non è più certamente né di legno né di pietra; ma non un miracolo arbitrario. Quel palcoscenico, anche perché accoglie la realtà fantastica dei sei personaggi, non esiste di per se stesso come dato fisso e immutabile, come nulla di questa commedia esiste di posto e di preconcetto: tutto vi si fa, tutto vi si muove, tutto vi è tentativo improvviso. Anche il piano di realtà del luogo in cui si muta e si rimuta questa informe vita che anela alla sua forma, arriva così a spostarsi organicamente. Quando io concepii di far nascere lì per lì Madama Pace su quel palcoscenico, sentii che potevo farlo e lo feci; se avessi avvertito che questa nascita mi scardinava e mi riformava, silenziosamente e quasi inavvertitamente, in un attimo, il piano di realtà della scena, non lo avrei fatto di sicuro, aggelato dalla sua apparente illogicità. E avrei commesso una malaugarata mortificazione della bellezza della mia opera, da cui mi salvò il fervore del mio spirito: perché, contro una bugiarda apparenza logica, quella fantastica nascita è sostenuta da una vera necessità in misteriosa organica correlazione con tutta la vita dell’opera.

    Che qualcuno ora mi dica che essa non ha tutto il valore che potrebbe avere perché la sua espressione non è composta ma caotica, perché pecca di romanticismo, mi fa sorridere.

    Capisco perché questa osservazione mi sia stata fatta. Perché nel mio lavoro la rappresentazione del dramma in cui sono involti i sei personaggi appare tumultuosa e non procede mai ordinata: non c’è sviluppo logico, non c’è concatenazione negli avvenimenti. È verissimo. Neanche a cercarlo col lumicino avrei potuto trovare un modo più disordinato, più strambo, più arbitrario e complicato, cioè più romantico, di rappresentare «il dramma in cui sono involti i sei personaggi». È verissimo, ma io non ho affatto rappresentato quel dramma: ne ho rappresentato un altro   e non starò a ripetere quale! in cui, fra le altre belle cose che ognuno secondo i suoi gusti ci può ritrovare, c’è proprio una discreta satira dei procedimenti romantici; in quei miei personaggi così tutti incaloriti a sopraffarsi nella parte che ognun d’essi ha in un certo dramma mentre io li presento come personaggi di un’altra commedia che essi non sanno e non sospettano, così che quella loro esagitazione passionale, propria dei procedimenti romantici, è umoristicamente posta, campata sul vuoto. E il dramma dei personaggi, rappresentato non come si sarebbe organato nella mia fantasia se vi fosse stato accolto, ma così, come dramma rifiutato, non poteva consistere nel mio lavoro se non come «situazione», e in qualche sviluppo, e non poteva venir fuori se non per accenni, tumultuosamente e disordinatamente, in iscorci violenti, in modo caotico: di continuo interrotto, sviato, contraddetto, e, anche, da uno dei suoi personaggi negato, e, da due altri, neanche vissuto.

    C’è un personaggio infatti   quello che «nega» il dramma che lo fa personaggio, il Figlio che tutto il suo rilievo e il suo valore trae dall’essere personaggio non della «commedia da fare» che come tale quasi non appare ma della rappresentazione ch’io ne ho fatta. È insomma il solo che viva soltanto come «personaggio in cerca d’autore»; tanto che l’autore che egli cerca non è un autore drammatico. Anche questo non poteva essere altrimenti; tanto l’atteggiamento del personaggio è organico nella mia concezione quanto è logico che nella situazione determini maggior confusione e disordine e un altro motivo di contrasto romantico.

    Ma appunto questo caos, organico e naturale, io dovevo rappresentare; e rappresentare un caos non significa affatto rappresentare caoticamente, cioè romanticamente. E che la mia rappresentazione sia tutt’altro che confusa, ma anzi assai chiara, semplice e ordinata, lo dimostra l’evidenza con cui, agli occhi di tutti i pubblici del mondo, risultano l’intreccio, i caratteri, i piani fantastici e realistici, drammatici e comici del lavoro, e come, per chi ha occhi più penetranti, vengono fuori i valori insoliti in esso racchiusi.

    Grande è la confusione delle lingue fra gli uomini, se critiche così fatte pur trovan le parole per esprimersi. Tanto grande questa confusione quanto perfetta l’intima legge d’ordine che, in tutto obbedita, fa classica e tipica la mia opera e vieta ogni parola alla sua catastrofe. Quando, difatti, davanti a tutti ormai compresi che per artificio non si crea vita e che il dramma dei sei personaggi, mancando l’autore che lo invalori nello spirito, non si potrà rappresentare, per l’istigazione del Capocomico volgarmente ansioso di conoscere come si svolse il fatto, questo fatto è ricordato dal Figlio nella successione materiale dei suoi momenti, privo di qualunque senso e perciò senza neanche bisogno della voce umana, s’abbatte bruto, inutile, con la detonazione d’un’arma meccanica sulla scena, e infrange e disperde lo sterile tentativo dei personaggi e degli attori, apparentemente non assistito dal poeta.

    Il poeta, a loro insaputa, quasi guardando da lontano per tutto il tempo di quel loro tentativo, ha atteso, intanto, a creare con esso e di esso la sua opera.

    post del 27  febbraio 2014

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