Una questione privata
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La bocca socchiusa, le braccia abbandonate lungo i fianchi, Milton guardava la villa di Fulvia, solitaria sulla collina che degradava sulla città di Alba.
Il cuore non gli batteva, anzi sembrava latitante dentro il suo corpo.
Ecco i quattro ciliegi che fiancheggiavano il vialetto oltre il cancello appena accostato, ecco i due faggi che svettavano di molto oltre il tetto scuro e lucido. I muri erano sempre candidi, senza macchie né fumosità, non stinti dalle violente piogge degli ultimi giorni. Tutte le finestre erano chiuse, a catenella, visibilmente da lungo tempo.
«Quando la rivedrò? Prima della fine della guerra è impossibile. Non è nemmeno augurabile. Ma il giorno stesso che la guerra finisce correrò a Torino a cercarla. È lontana da me esattamente quanto la nostra vittoria».
Il suo compagno si avvicinava, pattinando sul fango fresco.
– Perché hai deviato? – domandò Ivan. – Perché ora ti sei fermato? Cosa guardi? Quella casa? Perché ti interessi a quella casa?
– Non la vedevo dal principio della guerra, e non la rivedrò più prima della fine. Abbi pazienza cinque minuti, Ivan.
– Non è questione di pazienza, ma di pelle. Quassù è pericoloso. Le pattuglie.
– Non si azzardano fin quassù. Al massimo arrivano alla strada ferrata.
– Dà retta a me, Milton, pompiamo. L’asfalto non mi piace.
– Qui non siamo sull’asfalto, – rispose Milton che si era rifissato alla villa.
– Ci passa proprio sotto, – e Ivan additò un tratto dello stradale subito a valle della cresta, con l’asfalto qua e là sfondato, sdrucito dappertutto.
– L’asfalto non mi piace, – ripeté Ivan. – Su una stradina di campagna puoi farmi fare qualunque follia, ma l’asfalto non mi piace.
– Aspettami cinque minuti, – rispose cheto Milton e avanzò verso la villa, mentre soffiando l’altro si accoccolava sui talloni e con lo sten posato sulla coscia sorvegliava lo stradale e i viottoli del versante. Lanciò pure un’ultima occhiata al compagno. – Ma come cammina?
In tanti mesi non l’ho mai visto camminare così come se camminasse sulle uova.
Milton era un brutto: alto, scarno, curvo di spalle. Aveva la pelle spessa e pallidissima, ma capace di infoscarsi al minimo cambiamento di luce o di umore. A ventidue anni, già aveva ai lati della bocca due forti pieghe amare, e la fronte profondamente incisa per l’abitudine di stare quasi di continuo aggrottato. I capelli erano castani, ma mesi di pioggia e di polvere li avevano ridotti alla più vile gradazione di biondo. All’attivo aveva solamente gli occhi, tristi e ironici, duri e ansiosi, che la ragazza meno favorevole avrebbe giudicato più che notevoli. Aveva gambe lunghe e magre, cavalline, che gli consentivano un passo esteso, rapido e composto.
Passò il cancello che non cigolò e percorse il vialetto fino all’altezza del terzo ciliegio. Com’erano venute belle le ciliege nella primavera del quarantadue. Fulvia ci si era arrampicata per coglierne per loro due. Da mangiarsi dopo quella cioccolata svizzera autentica di cui Fulvia pareva avere una scorta inesauribile. Ci si era arrampicata come un maschiaccio, per cogliere quelle che diceva le più gloriosamente mature, si era allargata su un ramo laterale di apparenza non troppo solida. Il cestino era già pieno e ancora non scendeva, nemmeno rientrava verso il tronco. Lui arrivò a pensare che Fulvia tardasse apposta perché lui si decidesse a farlesi un po’ più sotto e scoccarle un’occhiata da sotto in sù. Invece indietreggiò di qualche passo, con le punte dei capelli gelate e le labbra che gli tremavano.
«Scendi. Ora basta, scendi. Se tardi a scendere non ne mangerò nemmeno una. Scendi o rovescerò il cestino dietro la siepe. Scendi. Tu mi tieni in agonia».
Fulvia rise, un po’ stridula, e un uccello scappò via dai rami alti dell’ultimo ciliegio.
Proseguì con passo leggerissimo verso la casa ma presto si fermò e retrocesse verso i ciliegi. «Come potevo scordarmene?» pensò, molto turbato. Era successo proprio all’altezza dell’ultimo ciliegio. Lei aveva attraversato il vialetto ed era entrata nel prato oltre i ciliegi. Si era sdraiata, sebbene vestisse di bianco e l’erba non fosse più tiepida. Si era raccolta nelle mani a conca la nuca e le trecce e fissava il sole. Ma come lui accennò ad entrare nel prato gridò di no. «Resta dove sei. Appoggiati al tronco del ciliegio. Così».
Poi, guardando il sole, disse: «Sei brutto». Milton assentì con gli occhi e lei riprese: «Hai occhi stupendi, la bocca bella, una bellissima mano, ma complessivamente sei brutto». Girò impercettibilmente la testa verso lui e disse: «Ma non sei poi così brutto. Come fanno a dire che sei brutto? Lo dicono senza… senza riflettere».
Ma più tardi disse, piano ma che lui sentisse sicuramente: «Hieme et aestate, prope et procul, usquedum vivam… O grande e caro Iddio, fammi vedere per un attimo solo, nel bianco di quella nuvola, il profilo dell’uomo a cui lo dirò». Scattò tutta la testa verso di lui e disse: «Come comincerai la tua prossima lettera? Fulvia dannazione?» Lui aveva scosso la testa, frusciando i capelli contro la corteccia del ciliegio. Fulvia si affannò. «Vuoi dire che non ci sarà una prossima lettera?» «Semplicemente che non la comincerò Fulvia dannazione. Non temere, per le lettere. Mi rendo conto. Non possiamo più farne a meno. Io di scrivertele e tu di riceverle».
Era stata Fulvia a imporgli di scriverle, al termine del primo invito alla villa. L’aveva chiamato su perché le traducesse i versi di Deep Purple.
Penso si tratti del sole al tramonto, gli disse. Lui tradusse, dal disco al minimo dei giri. Lei gli diede sigarette e una tavoletta di quella cioccolata svizzera. Lo riaccompagnò al cancello. «Potrò vederti, – domandò lui, – domattina, quando scenderai in Alba?» «No, assolutamente no». «Ma ci vieni ogni mattina, – protestò, – e fai il giro di tutte le caffetterie». «Assolutamente no. Tu ed io in città non siamo nel nostro centro». «E qui potrò tornare?» «Lo dovrai».
«Quando?» «Fra una settimana esatta». Il futuro Milton brancolò di fronte all’enormità, alla invalicabilità di tutto quel tempo. Ma lei, lei come aveva potuto stabilirlo con tanta leggerezza? «Restiamo intesi fra una settimana esatta. Tu però nel frattempo mi scriverai». «Una lettera?» «Certo una lettera. Scrivimela di notte». «Sì, ma che lettera?» «Una lettera».
E così Milton aveva fatto e al secondo appuntamento Fulvia gli disse che scriveva benissimo. «Sono… discreto». «Meravigliosamente, ti dico. Sai che farò la prima volta che andrò a Torino? Comprerò un cofanetto per conservarci le tue lettere. Le conserverò tutte e mai nessuno le vedrà. Forse le mie nipoti, quando avranno questa mia età». E lui non poté dir niente, oppresso dall’ombra della terribile possibilità che le nipoti di Fulvia non fossero anche le sue. «La prossima lettera come la comincerai? – aveva proseguito lei. – Questa cominciava con Fulvia splendore. Davvero sono splendida?» «No, non sei splendida». «Ah, non lo sono?» «Sei tutto lo splendore». «Tu, tu tu, – fece lei, – tu hai una maniera di metter fuori le parole … Ad esempio, è stato come se sentissi pronunziare splendore per la prima volta». «Non è strano. Non c’era splendore prima di te». «Bugiardo! – mormorò lei dopo un attimo, – guarda che bel sole meraviglioso!» E alzatasi di scatto corse al margine del vialetto, di fronte al sole.
Ora lo sguardo basso di lui rifaceva quel lontano tragitto di Fulvia, ma prima di arrivare al limite ritornò al punto di partenza, all’ultimo ciliegio. Come si era imbruttito, e invecchiato. Tremava e sgocciolava, impudicamente, di contro il cielo biancastro.
Poi si riscosse e un po’ pesantemente arrivò sulla spianata davanti al portichetto d’entrata. Il ghiaino era impastato di foglie macerate, le foglie dei due autunni di lontananza di Fulvia. A leggere si metteva quasi sempre lì, a filo dell’arco centrale, raccolta nella grande poltrona di vimini coi cuscini rossi. Leggeva. Il cappello verde, La signorina Elsa, Albertine disparue …
A lui quei libri nelle mani di Fulvia pungevano il cuore. Malediceva, odiava Proust, Schnitzler, Michael Arlen. Piú avanti, però, Fulvia aveva imparato a fare a meno di quei libri; le bastavano, pareva, le poesie e i racconti che a getto continuo lui traduceva per lei. La prima volta le aveva portato la versione di Evelyn Hope.
«Per me?» fece lei. «Esclusivamente». «Perché a me?» «Perché… guai se tu non sei il tipo per queste cose». «Guai a me?» «No, guai a me stesso». «E che cos’è?» «Beautiful Evelyn Hope is dead/Sit and watch by her side an hour». Dopo, le luccicavano gli occhi, ma preferì abbandonarsi all’ammirazione per il traduttore. «Proprio tu l’hai tradotta? Ma allora sei un vero dio. E cose allegre non ne traduci mai?»
«Mai». «E perché?» «Nemmeno mi vengono sott’occhio. Credo che scappino da me, le cose allegre».
La volta dopo le portò un racconto di Poe. «Di che parla?» «Of my love, of my lost love, of my lost love Morella». «Lo leggerò stanotte». «Io l’ho tradotto in due notti». «Non stai troppo su di notte?» «Devo comunque, – rispose lui. – Non c’è notte senza allarme e io sono nell’ UNPA ». Esplose a ridere. «Nell’UNPA! Sei dell’ UNPA? Questo me lo dovevi nascondere. È troppo ridicolo. Volontario nell’UNPA, col bracciale giallo e blu!» «Col bracciale sì, ma volontario un bel niente! Ci hanno arruolati in Federazione e se manchi a un allarme l’indomani ti trovi le guardie a casa. Anche Giorgio è nell’ UNPA». Ma di Giorgio Fulvia non rise, forse perché aveva già scaricato su lui tutta la sua ilarità.
Era stato Giorgio Clerici a presentargliela, in palestra, dopo una partita di pallacanestro. Uscivano dagli spogliatoi e la trovarono, come una perla mimetizzata nelle alghe, nei resti del pubblico che sfollava. «Questa è Fulvia. Sedici anni. Sfollata da Torino per fifa dei bombardamenti aerei che in fondo in fondo la divertivano. Ora abita da noi, in collina, nella villa che era del notaio… eccetera, eccetera. Fulvia ha un sacco di dischi americani. Fulvia, questo è un dio in inglese».
Solo all’ultimo Fulvia aveva sollevato gli occhi a Milton, e i suoi occhi dicevano che quello, Milton, poteva esser tutto tranne che un dio.
Milton si premette le mani sul viso e in quel buio cercò di rivedere gli occhi di Fulvia. Alla fine abbassò le mani e sospirò, esausto dallo sforzo e dalla paura di non ricordarli. Erano di un caldo nocciola, pagliettati d’oro.
Voltò la testa al crinale e ci vide una parte di Ivan, sempre accoccolato e attento al lungo, complesso pendio.
Arrivò sotto il portichetto. «Fulvia, Fulvia, amore mio». Davanti alla porta di lei gli sembrava di non dirlo al vento, per la prima volta in tanti mesi. «Sono sempre lo stesso, Fulvia. Ho fatto tanto, ho camminato tanto…
Sono scappato e ho inseguito. Mi sono sentito vivo come mai e mi son visto morto. Ho riso e ho pianto. Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho visti uccidere, a freddo, moltissimi. Ma io sono sempre lo stesso».
Sentì un passo avvicinarsi di lato sul marciapiede perimetrale della villa. Milton spallò a metà la carabina americana, ma, per quanto pesante, era un passo di donna.
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Secondo capitolo
La custode spiò dall’angolo. – Un partigiano! Cosa vuole? Chi cerca? Ma lei è…
– Sono proprio io, – disse Milton senza sorridere, troppo sconcertato dal vederla tanto invecchiata. Il corpo le si era fatto piú tozzo e la faccia piú smunta e tutti i suoi capelli erano bianchi.
– L’amico della signorina, – disse la donna lasciando il riparo dell’angolo. – Uno degli amici. Fulvia è via, è tornata a Torino.
– Lo so.
– È partita più di un anno fa, quando voi ragazzi avete messo su questa vostra guerra.
– Lo so. Ha più avuto notizie?
– Di Fulvia? – Scosse la testa. – Mi promise di scrivermi, ma non l’ha mai fatto. Però io ci spero sempre e un giorno o l’altro riceverò.
«Questa donna, – pensava Milton fissandola stralunato, – questa vecchia, insignificante donna riceverà una lettera da Fulvia. Con notizie della sua vita, i saluti e la firma».
Firmava così: , almeno con lui.
– Può darsi mi abbia scritto e la lettera sia andata persa –. Abbassò gli occhi e proseguì: – Era cara Fulvia. Impulsiva, forse capricciosa, ma molto cara.
– Certo.
– E bella, molto bella.
Milton non rispose, solo portò avanti il labbro inferiore. Era un suo modo di ricevere il dolore e resistervi, la bellezza di Fulvia l’aveva sempre, più che altro, addolorato.
Lei lo guardò un po’ obliquamente e disse: – E pensiamo che non ha ancora diciotto anni. Sedici scarsi, allora.
– Debbo chiederle un favore. Lasciarmi rivedere la casa –. La voce gli usciva dura, senza che volesse, quasi raschiante. – Lei non immagina che… aiuto mi darebbe.
– Ma certo, – rispose lei, torcendosi le mani.
– Mi lasci rivedere solo la nostra stanza –. Aveva cercato, senza effetto, di ammorbidire la voce. – Non le prenderò piú di due minuti.
– Ma certo.
La donna gli avrebbe aperto dall’interno, per far ciò doveva aggirare la villa, avesse pazienza. – E dirò al figlio del contadino di uscire sull’aia e montare un po’ di guardia.
– Da quell’altra parte, per favore. Da questa ci sta attento un compagno.
– Credevo fosse solo, – disse la donna con una nuova preoccupazione.
– È come se lo fossi.
La custode scantonò e Milton riuscí sulla spianata.
Batté le mani verso Ivan e poi gli presentò una mano aperta. Cinque minuti, aspettasse cinque minuti. (Poi sbirciò il cielo per imprimersi un altro grande elemento di ricordo di quel giorno stupendo. Su quel mare grigio una flotta di nubi nerastre scivolava verso ovest investendo di prua certe nuvolette candide che immediatamente andavano in pezzi. Venne una folata di vento che scrollò gli alberi e lo stillicidio tintinnava sul ghiaino.
Ora il cuore gli batteva, le labbra gli si erano di colpo inaridite. Sentiva filtrare attraverso la porta la musica di Over the Rainbow.
Quel disco era stato il suo primo regalo a Fulvia. Dopo l’acquisto era stato tre giorni senza fumare. Sua madre vedova gli passava una lira al giorno e lui l’investiva tutta in sigarette. Il giorno che le portò il disco, lo suonarono per ventotto volte. «Ti piace? – le domandò, contratto, abbuiato dall’ansia perché la giusta domanda sarebbe stata: – Lo ami?» «Vedi bene che lo rimetto, – aveva risposto lei. E poi: – Mi piace da svenire. Quando finisce, senti che qualcosa è veramente finito». E allora, qualche settimana piú avanti: «Fulvia, hai una canzone preferita?» «Non saprei. Ne ho tre o quattro». «Non è…?» «Forse, ma no! è carinissima, mi piace da morire, ma ne ho altre tre o quattro».
La custode veniva, sotto il suo passo il parquet scricchiolava anormalmente, con un crepitio astioso, maligno. Come se non gradisse di esser risvegliato, immaginò Milton. Si affrettò sotto il portico e una dopo l’altra raschiava le scarpe fangose sul filo del gradino. Sentì la donna scattare l’interruttore della luce e armeggiare alla serratura. Lui era a metà strada nel ripulirsi.
La porta si socchiuse. – Entri, entri così, entri subito.
– Il parquet…
– Oh, il parquet, – fece lei con una sorta di disperata dolcezza. Ma lo lasciò finire, e mormorava: è piovuto tanto, e il contadino dice che pioverà ancora tanto. Mai visto in vita mia un novembre così piovoso. Voi partigiani sempre all’aperto come vi asciugate?
– Sulla pelle, – rispose Milton, che ancora non aveva osato guardar dentro.
– Ora basta, entri, entri così.
La donna aveva acceso un solo lume del lampadario.
La luce piombava sul tavolo intarsiato senza riverberare e nell’ombra circostante le federe bianche delle poltrone e del divano baluginavano spettralmente.
– Non sembra d’entrare in una tomba?
Lui rise stupidamente, come fa chi deve mascherare un pensiero molto serio. Non poteva certo dirle che quello per lui era il più luminoso posto al mondo, che lì per lui c’era vita o resurrezione.
– Ho paura… – cominciò calma la donna.
Non le badava, forse nemmeno la sentì, rivedeva Fulvia raccolta nel suo favorito angolo di divano, con la testa leggermente arrovesciata, di modo che una delle sue trecce pendeva nel vuoto, lucida e pesante. E rivedeva se stesso seduto nell’angolo opposto, le lunghe magre gambe stese lontane, che le parlava a lungo, per ore, lei così attenta che appena respirava, lo sguardo quasi sempre lontano da lui. Gli occhi le si velavano presto di lacrime. E quando non poteva più trattenerle, allora scattava di lato la testa, si sottraeva, si ribellava.
– Basta. Non mi parlare più. Mi fai piangere. Le tue bellissime parole servono solo, riescono solo a farmi piangere. Sei cattivo. Mi parli così, questi argomenti li cerchi e li sviluppi solo per vedermi piangere. No, non sei cattivo. Ma sei triste. Peggio che triste, sei tetro. Almeno piangessi anche tu. Sei triste e brutto. E io non voglio diventare triste, come te. Io sono bella e allegra. Lo ero.
– Ho paura, – diceva la custode, – che finita la guerra Fulvia non tornerà mai più qui.
– Tornerà.
– Io ne sarei felice, ma ho paura di no. Appena finita la guerra suo padre rivenderà la villa. L’ha comprata esclusivamente per Fulvia, per farcela sfollare. L’avrebbe già rivenduta se di questi tempi e in questa zona si trovassero compratori. Temo proprio che non la rivedremo più su queste colline. Fulvia andrà al mare, come faceva ogni estate prima della guerra. Infatti va pazza per il mare e io l’ho sentita tante volte parlare di Alassio.
Lei è mai stato ad Alassio? Non c’era mai stato, e diffidava di quel posto, in un attimo lo odiò, sperò proprio che la guerra lo riducesse in uno stato per cui Fulvia non potesse più recarcisi o semplicemente desiderarlo.
– I suoi di Fulvia hanno una casa ad Alassio. Quando era malinconica o stufa parlava sempre del mare e di Alassio.
– Le dico che tornerà.
Andò al tavolino addossato alla parete di fondo, a lato del caminetto. Si inclinò leggermente e col dito disegnò la forma del fonografo di Fulvia.
Over the Rainbow, Deep Purple, Covering the Waterfront, le sonate al piano di Charlie Khuntz e Over the Rainbow, Over the Rainbow, Over the Rainbow.
-Quanto ha lavorato quel grammofono, – disse la donna agitando una mano.
– Già.
– Qui si ballava moltissimo, si esagerava. E il ballo era severamente proibito, anche in famiglia. Si ricorda quante volte son dovuta entrare a dirvi di far piano, che si sentiva fuori, per mezza collina?
– Mi ricordo.
– Lei però non ballava. O mi sbaglio?
No, non ballava. Non ci si era mai provato, nemmeno per imparare. Stava a guardare gli altri, Fulvia e il suo compagno, cambiava i dischi e ridava la corda. Faceva insomma il macchinista. La definizione era di Fulvia. «Sveglia, macchinista! Viva il macchinista!» Aveva un timbro di voce non propriamente gradevole, ma lui era pronto ad accettare per esso la sordità a tutte le voci dell’umanità e della natura. Fulvia ballava spessissimo con Giorgio Clerici, duravano anche per cinque o sei dischi consecutivi, slacciandosi appena negli intervalli. Giorgio era il più bel ragazzo di Alba ed anche il più ricco, ovviamente il più elegante. Nessuna ragazza di Alba era in condizioni di far da pendant a Giorgio Clerici. Arrivò da Torino Fulvia e la coppia perfetta fu formata. Lui era biondo miele, lei bruna mogano. Fulvia era entusiasta di Giorgio, come ballerino.
«He dances divinely», proclamava, e Giorgio di lei: «È… è indicibile», e, rivolto a Milton: «Nemmeno tu, che con le parole sei formidabile, sapresti dire…» Milton gli sorrideva, silenzioso, tranquillo, sicuro, quasi misericordioso.
Non si parlavano mai, ballando. Ballasse Giorgio con Fulvia, facesse quel poco che gli era mezzo e destino di fare.
Una sola volta si era irritato, una volta che Fulvia dimenticò di stralciare dalla serie dei ballabili Over the Rainbow.
Glielo fece osservare durante una pausa, e lei prontamente abbassò gli occhi e mormorò: «Hai ragione».
Ma un giorno, erano soli, Fulvia caricò il fonografo con le sue mani e mise Over the Rainbow.
«Avanti, balla con me». Lui aveva detto, forse gridato di no. «Devi imparare, assolutamente. Con me, per me. Avanti». «Non voglio imparare … con te». Ma già lo teneva, lo spostava nello spazio libero e spostandolo ballava. «No!» protestò lui, ma era cosí sconvolto che non riusciva nemmeno a tentare di divincolarsi. «E soprattutto non con quella canzone!» Ma lei non lo lasciava e lui dovette badare a non inciampare e rovinarle addosso. «Devi, – disse lei. – Sono io che lo voglio. Io voglio ballare con te, capisci?
Sono stufa di ballare con ragazzi che non mi dicono niente. Io non sopporto più di non ballare mai con te».
Poi, d’un tratto, proprio mentre Milton cedeva, lo abbandonò, rilanciandogli forte le braccia contro il corpo.
«Và a morire in Libia, – gli disse tornando al divano. – Sei un ippopotamo, un ippopotamo magro». Ma un attimo dopo lui sentì la mano di Fulvia sfiorargli le spalle e il suo alito sulla nuca. «Davvero, dovresti pensare di più a star diritto con le spalle. Sei curvo, troppo. Veramente, raddrizza le spalle. Tienile più presenti, capisci? E ora torniamo a sedere e tu parlami».
Andò alla libreria, richiamato dal fioco luccicore dei cristalli. Aveva già visto che era quasi vuota, con al più una decina di libri dimenticati, sacrificati. Si inclinò agli scaffali ma subito si raddrizzò, come per l’opposto effetto di un pugno alla bocca dello stomaco. Era pallido e gli mancava il respiro. Tra quei pochi libri trascurati aveva visto Tess dei d’Urbervilles che lui aveva regalato a Fulvia, dissestandosi per una quindicina.
– Chi ha scelto i libri da portar via o da lasciare? é stata Fulvia?
– Lei.
– Proprio lei?
– Ma certo, – disse la custode. – I libri interessavano solo a lei. Li prese e li imballò lei stessa. Ma più che altro si preoccupò del grammofono e dei dischi. Di libri, come vede, ne ha lasciati, ma di dischi nemmeno uno.
Nella porta si inquadrò la testa di Ivan. Apparve tonda, scialba e staccata, come una luna.
– Che c’è? – fece Milton. – Salgono?
– No, ma andiamocene. È ora.
– Altri due minuti ancora.
Con una smorfia e un sospiro Ivan ritirò la testa.
– Mi scusi anche lei per altri due minuti. Non disturberò mai più, non ripasserò più prima della fine della guerra.
La donna allargò le braccia. – Si figuri. Purché non ci sia pericolo. Mi ricordavo benissimo di lei. Ha notato come l’ho subito riconosciuto? E le dirò… mi faceva piacere, allora, quando veniva a trovare la signorina. Lei più di tutta l’altra compagnia. Lei più del signorino Clerici, a esser sincera. A proposito, non ho mai più visto il signorino Clerici. È partigiano pure lui?
– Si, siamo insieme. Siamo sempre stati insieme, ma io ultimamente sono stato trasferito in un’altra brigata. Ma perché dice che preferiva me a Giorgio? Come visitatore, dico.
Quella esitò, abbozzò un gesto come per cancellare la frase di prima o almeno rimpiccolirla, ma – dica, dica, – fece Milton con tutti i nervi che gli si tendevano in corpo.
– Non ne parlerà col signorino Clerici quando lo rivede?
– Ma le pare?
– Il signorino Clerici, – disse allora, – mi fece inquietare e anche arrabbiare. Lo dico a lei perché ho stima di lei, lei è un ragazzo col viso tanto serio, mi lasci dire che non ho mai visto un ragazzo con una fisionomia così seria. Lei mi capisce. Io contavo poco o niente, ero solamente la custode della villa, ma la signora mamma di Fulvia, quando ce l’accompagnò, mi aveva pregato, mi aveva raccomandato…
– Un po’ di governante, – suggerí Milton.
-Ecco, se la parola non è grossa. Quindi io dovevostare un po’ attenta a quel che succedeva intorno alla ragazza. Lei mi capisce. Con lei io stavo tranquilla, tanto tranquilla. Parlavate sempre, per ore. O meglio, lei parlava e Fulvia ascoltava. Non è vero?
– È vero. Era vero.
– Con Giorgio Clerici invece…
– Sí, – fece lui con la lingua secca.
– Ultimamente, l’ultima estate voglio dire, l’estate del‘43, lei era soldato, mi sembra.
– Sí.
– Ultimamente veniva troppo spesso, e quasi sempre di notte. A me francamente quelle ore non piacevano. Arrivava con la macchina pubblica. Si ricorda quella che posteggiava sempre davanti al municipio? Quella bella macchina nera, poi con quel ridicolo impianto a gasogeno?
– Sí.
– La donna dondolò la testa. – Loro due non li sentivo mai parlare. Io origliavo, non ho nessuna vergogna a dirlo, origliavo per dovere. Ma c’era sempre un silenzio, quasi non ci fossero. E io non stavo per niente tranquilla. Ma non dica queste cose al suo amico, mi raccomando. Si misero a far tardi, ogni volta piú tardi. Fossero sempre rimasti qui fuori, sotto i ciliegi, non mi sarei preoccupata tanto. Ma cominciarono a uscire a passeggio. Prendevano per la cresta della collina.
– Da che parte? Da che parte prendevano?
– Eh? Un po’ di qui e un po’ di là, ma il più spesso prendevano verso il fiume. Sa, dove questa collina punta al fiume.
– Va bene.
– Io naturalmente stavo su ad aspettarla, ma rientravano ogni volta più tardi.
– Che ore facevano?
– Anche mezzanotte. Io avrei dovuto fare osservazione a Fulvia.
Milton scosse violentemente la testa.
– Avrei dovuto sí, – disse la donna, – ma non ne trovai mai il coraggio. Mi dava soggezione, anche se poteva esser mia figlia, come differenza d’età. Finché una sera, anzi una notte, tornò sola. Non ho mai saputo perché Giorgio non la riaccompagnò. Era molto tardi, passata la mezzanotte. Non più un grillo cantava per tutta la collina, mi ricordo.
– Milton, – fischiò Ivan da fuori.
Nemmeno si voltò, ebbe solo una contrazione al sommo delle guance.
– E poi?
– E poi cosa? – fece la custode.
– Fulvia e… lui?
– Giorgio alla villa non si faceva più vedere. Ma usciva lei. Si davano appuntamento. Lui aspettava a cinquanta metri, addossato alla siepe per confondersi. Ma io ero all’erta e lo vedevo, lo tradivano i suoi capelli biondi. Quelle notti c’era una luna che spaccava.
– E questo fino a quando?
– Oh, fino ai primi dell’altro settembre. Poi successe il finimondo dell’armistizio e dei tedeschi. Poi Fulvia andò via da qui con suo padre. E io, pur affezionata come le ero, fui contenta. Stavo troppo sulle spine. Non dico che abbiano fatto il male…
Eccolo lì, che tremava verga a verga nella sua fradicia divisa cachi, con la carabina che gli sussultava sulla spalla, la faccia grigia, la bocca semiaperta e la lingua grossa e secca. Finse un accesso di tosse, per darsi il tempo di ritrovare la voce.
– Mi dica. Fulvia quando partì precisamente?
– Precisamente il dodici settembre. Suo padre aveva già capito che la campagna sarebbe diventata molto più pericolosa della grande città.
– Il dodici settembre, – fece eco Milton. E lui, lui dove era il dodici settembre 1943? Con un immenso sforzo se ne ricordò. A Livorno, asserragliato nei cessi della stazione, digiuno da tre giorni, miserabilmente vestito di panni d’accatto. Sul punto di svenire per l’inedia e le esalazioni della latrina si era affacciato sul corridoio e aveva cozzato in quel macchinista che si stava abbottonando la brachetta. «Da dove vieni, militare?» bisbigliò. «Roma». «E dov’è casa tua?» «Piemonte». «Torino?» «Vicinanze».
«Be’, io ti posso portare fino a Genova. Si parte tra mezz’ora, ma ti voglio nascondere subito nella carbonaia. Mica te ne frega di sembrare poi uno spazzacamino?»
– Milton! – richiamò Ivan, ma con meno urgenza di prima e tuttavia la custode ebbe un sobbalzo di paura.
– È proprio meglio che vada, sa? Comincio ad aver paura anch’io.
Macchinalmente Milton si girò e si avvicinò alla porta. Il dover salutare decentemente la donna gli pesava addosso come un’impresa schiacciante. Serrò gli occhi e disse: – È stata molto gentile. Anche coraggiosa. Grazie di tutto.
– Ma di niente. Mi ha fatto piacere rivederla qui, anche se con tutte quelle armi addosso.
Milton diede un ultimo sguardo alla stanza di Fulvia; era entrato per raccogliervi ispirazione e forza e ne usciva spoglio e distrutto.
– Grazie ancora. Di tutto. E richiuda, subito
– Correte molti pericoli, vero? – domandò ancora la donna.
– No, non molti, – rispose, assestandosi la carabina sulla spalla. – Finora abbiamo avuto fortuna, molta fortuna.
– Speriamo vi duri fino alla fine. E… è certo che alla fine vincerete voi?
– È certo, – rispose smorto e si avventò di corsa per il vialetto dei ciliegi, passando in tromba Ivan.
–