Continuiamo a pubblicare gli articoli di Yoani Sánchez perché convinti che i suoi articoli siano capaci di penetrare nelle pieghe della società cubana e non solo.
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In questo articolo la giornalista cubana narra della chiusura, imposta dallo Stato, dei primi negozi che vendevano privatamente e alla luce del sole prodotti che negli spacci statali o non si trovano o costano molto più cari. In questo modo il monopolio della compravendita delle merci rimane nelle mani di chi a Cuba detiene il potere. A Cuba inesorabilmente si sta realizzando un’economia di mercato stile cinese. L’apparato di partito sta oliando un sistema capitalistico che, come accadde in Russia finirà nelle mani degli oligarchi cubani dell’apparato, che già sta divenendo dinastico. Certamente qualcuno, dirà che questo articolo di Yoani Sánchez parla solo di vestiti e cianfrusaglie. È un metodo usato dagli schizoidi per annichilire la vitalità di chi sa che ribellandosi alla status quo realizza la propria identità umana e frustrando la passività del cittadino cerca di spingerlo alla ribellione. Ma Certamente qualcuno, dirà che questo articolo di Yoani Sánchez parla solo di vestiti e cianfrusaglie. Intanto alcuni imprenditori di Stato cinesi, zitti zitti, stanno aprendo a Cuba una fabbrica in cui si assembleranno automobili.
Giulia De Baudi
Cuba Libre
Sopravvissuta dell’utopia, spero che questi scritti e queste opinioni contribuiscano al raggiungimento di una Cuba più plurale, inclusiva e basata sulla parola e non sui fucili; nei cittadini e non nelle uniformi verde ulivo.
Vivere di illusioni
di Yoani Sánchez
6 gennaio 2014
A mezzanotte chiuse la porta, spense la luce e passò la mano sopra i manichini. Dicembre volgeva al termine e con lui se ne andavano anche i suoi affari: indumenti importati. Come Helen, decine di venditori in tutta La Habana sperarono fino all’ultimo minuto del 2013 in qualche buona notizia. Che però non arrivò mai.
Il governo mantenne l’impopolare proibizione contro la vendita privata di prodotti importati. Il termine per liquidare il commercio di indumenti e altri accessori, si concluse esattamente quando ventun salve di artiglieria annunciarono il nuovo anno. Docilmente, anche se mormorando il proprio fastidio, i proprietari delle cosiddette boutique, raccolsero la mercanzia, staccarono le insegne luminose e avvisarono i clienti di non tornare.
Il giorno dopo, con la pigrizia che segue ogni celebrazione, anche la città si svegliò con il viso mutato. Nei portali dove prima sbattevano i porta abiti, mostrando camicette, pantaloni e vestiti per l’infanzia, non rimaneva nulla. Le sale riconvertite in camerini per provarsi i vestiti erano sparite ed erano spariti anche i luoghi dove fino alla settimana precedente venivano offerti occhiali da sole e spugne per la pulizia domestica.
Non un solo venditore ha contestato le norme, nessuno ha lasciato il proprio negozio aperto.
Parallelamente, nessuna congregazione sindacale ha reclamato un indennizzo per le proprie perdite, ne attuato proteste esigendo un permesso a copertura della perduta attività di commerciante. Neppure i compratori abituali hanno levato la propria voce per solidarizzare con chi vendeva loro prodotti più convenienti, moderni, e diversificati dei negozi statali. Tutti hanno taciuto.
La spiegazione di questo timoroso silenzio si ottiene solo chiedendo. “Non ti preoccupare, vedrai che queste misure verranno tolte”, profetizzano alcuni. Coloro che si credono ben informati, perché hanno contatti con il governo, avvertono: “Fra pochi giorni permetteranno questo e molto di più”.
Sottotraccia rimane un messaggio paralizzante “lamentarsi è peggio”. E così è “meglio aspettare che rischiare problemi”. Intanto, Helen è rimasta con i suoi manichini che ormai nessuno guarda e con debiti a quattro cifre.
L’illusione di un possibile passo in avanti, frena la reazione per questo passo indietro. Le persone coinvolte vogliono credere che lo Stato rettificherà. Senza dubbio, il motivo reale di tanta mansuetudine è la paura di affrontare con le loro richieste il potere.
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Testo originale
Vivir de ilusiones
Por: Yoani Sánchez
06 de enero de 2014
Sobreviviente de la utopía, aspiro a que estos textos y opiniones contribuyan en algo a alcanzar una Cuba más plural, inclusiva y basada en la palabra, no en los fusiles; en los ciudadanos y no en los uniformes verdeolivo
A medianoche cerró la puerta, apagó las luces y pasó la mano sobre los maniquíes. Terminaba diciembre y con él se iba también su negocio de ropa importada. Como Helen, decenas de vendedores en toda La Habana esperaron hasta el último minuto de 2013 por alguna buena noticia. Pero nunca llegó.
El gobierno mantuvo la impopular prohibición contra la venta privada de productos importados. El plazo para liquidar los comercios de ropa y otros accesorios, concluyó justo cuando veintiuna salvas de artillería anunciaban el nuevo año. Mansamente, aunque murmurando su molestia, los propietarios de las llamadas boutique, recogieron la mercancía, descolgaron sus carteles lumínicos y le avisaron a los clientes que ya no volvieran.
Al otro día, junto a la pereza posterior a toda celebración, la ciudad amaneció también con el rostro cambiado. En los portales donde antes batían los percheros mostrando camisetas, pantalones y prendas infantiles, ya no quedaba nada. Las salas convertidas en probadores habían desaparecido y también los puestos que hasta la semana pasada ofrecían gafas de sol o esponjas para fregar.
Ni un solo vendedor ha desafiado lo orientado, ninguno ha mantenido su puesto abierto.
En paralelo, tampoco ha habido congregaciones sindicales para reclamar una indemnización por las inversiones perdidas, ni protestas exigiendo un permiso que cubra la actividad de comerciante. Ni siquiera los frecuentes compradores han elevado su voz, en solidaridad, con quienes les suministraban productos más baratos, modernos y variados que las tiendas estatales. Todos han callado.
La explicación para este silencio temeroso se obtiene con sólo preguntar. “No te preocupes, tú verás que esta medida la van a echar para atrás”, profetizan algunos. Quienes se creen muy informados por tener contactos en el gobierno advierten: “en pocos días van a permitir eso y mucho más”.
Subyacente queda entonces un mensaje paralizante “quejarse va a ser peor” así que “mejor esperar y no meterse en problemas”. Mientras tanto, Helen se ha quedado con sus maniquíes que ya nadie mira y con una deuda de cuatro cifras.
La ilusión de un posible paso hacia adelante, frena la reacción por este paso atrás. Los afectados quieren creer que el Estado rectificará. Sin embargo, el motivo real para tal mansedumbre es el miedo a encarar con sus demandas al poder.
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