–
Dal mito alla storia*
–
di Loretta Emiri
Com um livro apenas
tu foste intermediária entre mim e Che:
com emoções apenas
destituídos foram tempo e espaço ditadores,
como amante desejado apenas
perto dele fui correr.
Como filhas do amor apenas
verdades em mim senti crescer:
para ser coerente apenas
minha luta há de endurecer,
na coerência apenas
encontrarei a ternura de ser. (1)
* * *
Fino a quel momento, a caratterizzare la questione indigena era stata la ferrigna e sterile polemica fra Stato e Chiesa. Politici, funzionari pubblici, vescovo e pochi preti cattolici stranieri, si scannavano tra loro a colpi di stampa, interventi radiofonici, apparizioni televisive. Teatrali e intolleranti, le prese di posizione dei contendenti richiamavano sulle loro persone l’attenzione dell’opinione pubblica, distogliendola dall’essenza del problema: le misere condizioni di vita degli indigeni, la minaccia su loro incombente di genocidio ed etnocidio. Stato brasiliano storicamente e profondamente anti-indigeno, in Roraima la lotta dei nativi per la sopravvivenza era immane. Da soli non si sarebbero mai salvati. Dovevano contare su amici, simpatizzanti, consulenti, assessori, gruppi di appoggio.
–
Chi avesse capito la loro realtà poteva trasformarsi in potenziale alleato. Il lavoro da farsi doveva procedere in tre direzioni: smascherare i farabutti che, fomentando stereotipi e preconcetti, miravano all’annientamento degli indios e al possesso dei loro territori; sensibilizzare la popolazione regionale affinché cominciasse a vedere gli indigeni come esseri umani e le loro società differenti, non inferiori; investire nella formazione e consapevolizzazione degli indios così che non dipendessero più dalla carità di qualcuno ma, organizzati, loro stessi portassero avanti rivendicazioni e lotte per il riconoscimento dei propri diritti.
–
Insieme a un’insegnante legata alla Chiesa, e a una funzionaria di Stato, iniziai a contattare sistematicamente rappresentanti di partiti politici impegnati con gli interessi popolari, Chiese, associazioni di categoria, sindacati, movimenti culturali, artisti, educatori, persone sensibili alla situazione degli indios. Da questi contatti e dall’articolazione fra varie espressioni della società civile nacque il Comitato di Solidarietà ai Popoli Indigeni di Roraima. Il nucleo regionale dell’Associazione Brasiliana Teatro di Burattini fu tra le prime realtà entrate a far parte del Comitato; la presidentessa era una giovane donna tanto spregiudicata quanto io ero repressa, anche per questo divenimmo così amiche. Quando eravamo insieme, lo spazio fisico si surriscaldava; non a causa del clima tropicale, ma della passione che emanava dalle convinzioni, parole, propositi di entrambe, e che confluiva tutta nelle nostre animatissime, stupende discussioni.
La mia guerriglia personale si era svolta in ambito interiore e famigliare, ed era stata così cruenta che, all’epoca in cui venne ucciso, non ero in condizione di cogliere appieno cosa il Che era stato e avesse fatto. Quando l’amica brasiliana cominciò a parlarmi di lui, erano trascorsi diciassette anni dalla morte. Comprai un libro incentrato sul “pensiero vivo” di Guevara; qualche mese dopo, lei mi regalò un’edizione integrale e illustrata del diario boliviano. Letture, discussioni, approfondimenti mi aiutarono a ricordare o scoprire gesta e pensiero del Che, così che il ricordo vago e superficiale che di lui conservavo venne scalzato da una palpitante immagine interiore. Durante gli anni di lotta che seguirono, Guevara mi fu sempre accanto. La sua volontà di ferro rendeva caparbia la mia.
–
Alle doti fisiche e psicologiche del Che pensavo quando le mie vacillavano. Le sue idee, portate avanti con tenacia fino al sacrificio, mi sostennero quando scoprii che il mio telefono era controllato; che ero spiata, schedata, diffamata, boicottata; che a rischio erano le vite degli alleati degli indios. Simbolo dell’idealismo, Guevara divenne il mio ideale di uomo, colui che ispirava e guidava gli sforzi che facevo per essere radicale nelle mie scelte. Era lui a sussurrarmi che solo la fedeltà alla causa indigena avrebbe dato senso alla mia vita; e che, se fossi stata coerente, sempre più teneri si sarebbero fatti i miei sentimenti verso tutti gli esclusi e i diversi.
Un conoscente propose alla mia più cara amica di visitare Cuba. Inizialmente lei pensò che avrebbe dovuto utilizzare il gruzzolo, tanto faticosamente messo insieme, per tornare nell’amato Brasile. Invece, cominciarono a formarsi associazioni di idee così stimolanti da farle cambiare idea. La guerrigliera latino-americana viveva ora sotto le mentite spoglie di una scrittrice italo-brasiliana, quindi l’isola di Gertrudis Gómez de Avellaneda, di Ernest Hemingway, di Graham Greene, della Casa de las Américas ben valeva la pena di essere visitata. Complessi e innumerevoli, gli input scaturiti dal pellegrinaggio letterario meritano di confluire in un lavoro specifico; seppur limitato, si vuole anche che questo spazio sia tutto dedicato al Che.
Le emozioni iniziarono con il cambio di valuta: il viso di Guevara era sui tre pesos, moneta in circolazione e non fuori corso. Nella Plaza de la Rivolución, la sagoma in bronzo del volto del “guerrigliero eroico” le regalò lacrime e batticuore; la riproduzione della famosa foto scattata da Alberto Korda, di grande impatto e fortemente emblematica, occupa la facciata del Ministerio del Interior; l’informazione che nei primi anni sessanta quel palazzo aveva ospitato l’ufficio del Che la indusse a chiedersi se l’immagine conservata dentro di sé corrispondesse a quella dell’uomo che a L’Avana sentiva così potentemente vicino nel tempo e nello spazio. Addirittura, al Museo della Rivoluzione Guevara le apparve in cera, carne e ossa.
Approssimandosi alla città di Santa Clara, l’avvistamento dell’imponente statua in bronzo del Che le regalò altra emozione, che divenne commozione una volta che le fu sotto, dato che il Comandante vi è raffigurato con un braccio ingessato. Nel Museo si fermò a lungo ad osservare basco e giubbetto, forse perché più di altri oggetti le evidenziavano la fisicità e contemporaneità del Che. Nel Mausoleo in cui riposano i resti di Guevara e dei compagni ritrovati in Bolivia trent’anni dopo la loro uccisione, la riflessione si concentrò sul fatto che, essendo morto, era esistito, non era quindi il personaggio di una leggenda, né un essere mitologico. La visita al complesso architettonico dedicato alla memoria di Guevara terminò osservando l’immensa piazza che ne fa parte, tanto vasta da farle venire in mente l’America Latina. Durante pasti fatti in ristorante, più volte e sempre restandone toccata, ascoltò artisti locali cantare la nota canzone dedicata al Comandante. Però, la cosa che più la intenerì fu l’affetto colto nelle considerazioni degli abitanti di Santa Clara quando, parlando del Che, sembrava si riferissero a un loro carissimo amico, a un amato fratello maggiore.
–
In un angolo della città, posta tra i gradini di una scalinata, c’ è un’altra statua di Ernesto Guevara. Vi è raffigurato in dimensione naturale, mentre cammina, con in braccio un piccolo indigeno. Quando il luogo è affollato, il Che si confonde tra i passanti. Così ora lo pensa la guerrigliera-scrittrice: Ernesto Guevara è un uomo che procede spedito con un sogno tra le braccia e che, a differenza della maggior parte di coloro che incontra, sente il bisogno di fermarsi per riflettere sulla realtà, trovando addirittura tempo per scrivere; Ernesto Guevara, un uomo che, nel riprendere il cammino, è di nuovo pronto a vivere e morire per ciò in cui crede.
20 gennaio 2014
(1) “Che”, in Mulher entre três culturas, Loretta Emiri, Edicon, São Paulo, 1992.
* “Dal mito alla storia” è uno dei capitoli del libro inedito A passo di tartaruga
I siti web di Loretta Emiri
https://sites.google.com/site/wwwlorettaemiriit/
http://lorettaemiri.blogspot.it
http://lorettaemiriparaosamigosbrasileiros.blogspot.it
–