Testo da http://biografieonline.it
Eugenio Montale, uno dei massimi poeti italiani, nasce a Genova il 12 ottobre 1896 nella zona di Principe. La famiglia commercia prodotti chimici (il padre era curiosamente fornitore dell’azienda dello scrittore Italo Svevo. Eugenio è ultimo di sei figli.
Trascorre l’infanzia e la sua giovinezza tra Genova e lo splendido paese di Monterosso al Mare, nelle Cinque Terre, dove la famiglia è solita recarsi in vacanza.
Frequenta l’istituto tecnico commerciale e si diploma in Ragioneria nel 1915. Tuttavia Montale coltiva i propri interessi letterari, frequentando le biblioteche della sua città e assistendo alle lezioni private di filosofia della sorella Marianna.
La sua è una formazione da autodidatta: Montale scopre interessi e vocazione attraverso un percorso senza condizionamenti. Le lingue straniere e la letteratura (ha un amore speciale per Dante) sono la sua passione. Negli anni tra il 1915 e il 1923 inoltre studia musica insieme al baritono Eugenio Sivori.
Entra all’Accademia militare di Parma dove richiede di essere inviato al fronte, e dopo una breve esperienza in Vallarsa e Val Pusteria, Montale viene congedato nel 1920.
Questi sono gli stessi anni in cui il nome di D’Annunzio è conosciuto in tutta la nazione.
Terminata la prima guerra mondiale Montale inizia a frequentare i circoli culturali liguri e torinesi. Nel 1927 si trasferisce a Firenze dove collabora con l’editore Bemporad. Nella capitale toscana gli anni precedenti erano stati fondamentali per la nascita della poesia italiana moderna. Le prime liriche di Ungaretti per “Lacerba”, e l’accoglienza di poeti come Cardarelli e Saba presso gli editori fiorentini avevano gettato le basi di un profondo rinnovamento culturale che neppure la censura fascista avrebbe potuto spegnere. Montale entra in punta di piedi nell’officina della poesia italiana con un “signor biglietto da visita”, l’edizione degli “Ossi di Seppia” del 1925.
Nel 1929 è chiamato a dirigere il Gabinetto scientifico letterario G.P. Vieusseux, dal quale verrà espulso nel 1938 per antifascismo. Nel frattempo collabora con la rivista “Solaria”, frequenta il circolo letterario del caffè delle “Giubbe Rosse” – dove tra gli altri conosce Gadda e Vittorini – e scrive per quasi tutte le nuove riviste letterarie che nascono e muoiono in quegli anni.
Mentre la sua fama di poeta cresce, si dedica anche a traduzioni di poesie e testi teatrali, in prevalenza inglesi.
Terminata la Seconda Guerra mondiale si iscrive al Partito d’Azione e inizia un’intensa attività con varie testate giornalistiche. Nel 1948 si trasferisce a Milano dove inizia la sua collaborazione con il Corriere della Sera, per conto del quale compie molti viaggi e si occupa di critica musicale.
Montale raggiunge fama internazionale, attestata dalle numerose traduzioni in svariate lingue delle sue poesie.
Nel 1967 viene nominato senatore a vita.
Nel 1975 arriva il riconoscimento più importante: il Premio Nobel per la Letteratura.
Muore a Milano il 12 settembre 1981, poco prima di compiere 85 anni, nella clinica San Pio X dove si trovava ricoverato per problemi conseguenti a una vascolopatia cerebrale. Viene sepolto accanto alla moglie Drusilla nel cimitero vicino alla chiesa di San Felice a Ema, sobborgo nella periferia sud di Firenze.
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Guardai le cilestri pupille che in orbite pure splendevano, e l’ iridi che mille volte vidi sprizzare scintille, soffio che si disperde di pagliuche, non ravvisai quel giorno. Erano un fuso metallo ribollente nell’ ora incolore, un fervido crogiuolo onde struggeva l’ ieri le sue forme visibili, i pensieri nascosti, me perduto, voi risorta. Un mare che gonfiava di spume al chiaro lume d’ un raggio che feriva le sue cime m’ apparve: tosto candido fu di sfuggente bava. Poscia si squarciò il velo in brandelli: sembrò di contro ai rombi di quell’ onde . o dei polsi? . un volo strepitoso di colombi. Di poi rividi le tranquille spere. Qualche cosa era stata consumata. Una visione s’ aperse di verginale vita: nitide e terse come nate appena le sue contrade: io non poteva offrirle la mia giovinezza contrita. Un altro mare sfrusciava sulla piazzola antica. Curve femmine, prossime, rammendavano reti. Volli parlare, non seppi, respirai a fatica.
Io, voi, qui insieme nel leggiadro asilo, l’ ora che corre, le superflue parole e il gestire e le risa; tutto questo può dunque esistere. E’ un filo che può troncarsi ma bene ci tiene per ora: la mia fiducia è quella stessa che guida il sole pellegrino di fuori: non è giunta ancora l’ ora che abbrucia. Pure oltre i vetri è il mondo una rapina, un conflagrare, un crollo che impaura: un volo di avvoltoi sta contro al sole. Ormai la terra più non regge le sue case, come un’ accesa torcia nero fumiga il tempo. Parlate; e non muovetevi. Chi sa l’ insidia che n’è attorno troppo gode questa straordinaria fissità . Quei un attimo dismemori della torba marea che tenta la nostra porta noi siamo due insetti fragili nel calice d’ e una ninfea.
Passando con voi nella strada tra le ombre alte degli alberi che occidui raggi gettavano lontane, m’ era un’ angustia nel cuore, e in bocca un amaro. Ogni stecco svettasse tra le crepe d’ un muro era un indice teso di meridiana: finiva la sua carriera col sole ogni viva creatura: trasmutava col fil d’ erba la nuvola. Voi pure cui pensava io già esistenza immobile, distruggeva il minuto come l’ onda lenta le collinette della sabbia. Ogni foglia stormisse era l’ acqua che rode e che dissolve; per sempre vi rapiva a me: non avrei stretto che una vuotata forma in breve: spenta quella che vita fu della mia vita, viva. V’ andavo accanto afflitto senza osare guardarvi per timore di non più ravvisarvi: anche il ricordo dell’ ore andate già s’ intorbidava. La vostra voce dava un suono più sordo. Un velo veramente tra noi calava.
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Se avvenga ch’ io debba perdervi, ciò sia senza parole o rombo di fuggenti rinchiuse treni o di chiuse porte e fuggenti treni; ma sia questo in alcuna nostra diletta via solitaria ed un nimbo di parventi erbe selvagge coroni di là dai muri la nostra sorte. Senza rumori se non forse i suoni che concludono fasi e maturazioni di piante e il declinare di loro spoglie: sussurri fremiti: aloni del grembo del mondo che non appare. Sparerà una boccia di magnolia o tonferà una frasca; da quell’ istante sarete da me divisa. Poi da quell’ ora d’ incubo mia preziosa fuggiasca saprò evadere: la nostra vita è sposata a una vicenda che non passa senza ritorno: la notte ha la sua albata. E’ scritto ch’ io debba perdervi, ciò intendo; invano derelitto mi guarderò d’ attorno. Me ne andrò solitario; quando un giorno vi riavrò in uno scroscio di cascata.
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Turbamenti
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Mia volpe, un giorno fui anch’io il ‘poeta
assassinato’: là nel noccioleto
raso, dove fa grotta, da un falò;
in quella tana un tondo di zecchino
accendeva il tuo viso, poi calava
lento per la sua via fino a toccare
un nimbo, ove stemprarsi; ed io ansioso
invocavo la fine su quel fondo
segno della tua vita aperta, amara,
atrocemente fragile e pur forte.
Sei tu che brilli al buio? Entro quel solco
pulsante, in una pista arroventata,
àlacre sulla traccia del tuo lieve
zampetto di predace (un’orma quasi
invisibile, a stella) io, straniero,
ancora piombo; e a volo alzata un’anitra
nera, dal fondolago, fino al nuovo
incendio mi fa strada, per bruciarsi.
Da un lago svizzero, 1950
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Forse un mattino andando in un’aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di me, con un terrore di ubriaco.
Poi come s’uno schermo, s’accamperanno di gitto
alberi case colli per l’inganno consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n’andrò zitto
tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto.
[dai Ossi di seppia, 1925]
Ripenso il tuo sorriso, ed è per me un’acqua limpida
scorta per avventura tra le pietraie d’un greto,
esiguo specchio in cui guardi un’ellera e i suoi corimbi;
e su tutto l’abbraccio di un bianco cielo quieto.
Codesto è il mio ricordo; non saprei dire, o lontano,
se dal tuo volto si esprime libera un’anima ingenua,
vero tu sei dei raminghi che il male del mondo estenua
e recano il loro soffrire con sé come un talismano.
Ma questo posso dirti, che la tua pensata effigie
sommerge i crucci estrosi in un’ondata di calma,
e che il tuo aspetto s’insinua nella memoria grigia
schietto come la cima di una giovane palma…
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Falsetto
Esterina, i vent’anni ti minacciano,
grigiorosea nube
che a poco a poco in sé ti chiude.
Ciò intendi e non paventi.
Sommersa ti vedremo
nella fumea che il vento
lacera o addensa, violento.
Poi dal flotto di cenere uscirai
adusta più che mai,
proteso a un’avventura più lontana
l’intento viso che assembra l’arciera Diana.
Salgono i venti autunni,
t’avviluppano andate primavere;
ecco per te rintocca
un presagio nell’elisie sfere.
Un suono non ti renda
qual d’incrinata brocca percossa!;
io prego sia
per te concerto ineffabile
di sonagliere.
La dubbia dimane non t’impaura.
Leggiadra ti distendi
sullo scoglio lucente di sale
e al sole bruci le membra.
Ricordi la lucertola
ferma sul masso brullo;
te insidia giovinezza,
quella il lacciòlo d’erba del fanciullo.
L’acqua è la forza che ti tempra,
nell’acqua ti ritrovi e ti rinnovi:
noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo,
come un’equorea creatura
che la salsedine non intacca
ma torna al lito piú pura.
Hai ben ragione tu! Non turbare
di ubbie il sorridente presente.
La tua gaiezza impegna già il futuro
ed un crollar di spalle
dirocca i fortilizi
del tuo domani oscuro.
T’alzi e t’avanzi sul ponticello
esiguo, sopra il gorgo che stride:
il tuo profilo s’incide
contro uno sfondo di perla.
Esiti a sommo del tremulo asse,
poi ridi, e come spiccata da un vento
t’abbatti fra le braccia
del tuo divino amico che t’afferra.
Ti guardiamo noi, della razza
di chi rimane a terra.
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I Limoni
Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
lo, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguanta noi ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni,
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed è l’odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d’intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno piú languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.
Ma l’illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’affolta
il tedio dell’inverno sulle case,
la luce si fa avara – amara l’anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo dei cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’oro della solarità.
Henry K.
7 Luglio 2013 @ 16:56
Gravissimo che non abbiate inserito le didascalie alle foto. Un articolo di per sé apprezzabile cede di fronte a questa lacuna.
XXX
7 Luglio 2013 @ 17:56
Grazie per l’appunto, vediamo di rimediare. Dacci un paio di giorni.
Grazie di nuovo.
Giulia D.B.