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Pubblicato da AgoraVox il 20 settembre 2013
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Qui la prima parte di questa riflessione, dove si raccontava degli amorosi sensi fra l’illuministica antropologia di Eugenio Scalfari e la condiscendenza (un po’ melensa) del Papa nuovo, con gli interventi suadenti del priore di Bose e l’acume dialettico del teologo Vito Mancuso, tutti in forbita tenzone a ricercar quale può essere oggi, se mai esistesse ancora, “la differenza fra credenti e non credenti”.
Secondo scenario: il “disagio dell’intelligenza” nel cristianesimo delle origini
Intorno alla metà di agosto Repubblica ospita sulle sue pagine uno dei massimi esperti italiani di studi mistici, Marco Vannini. Ma già il 7 di giugno (le lettere aperte di Scalfari al Papa sono datate, sia detto per chi ama la Cabala, 7 luglio e 7 agosto) lo stesso quotidiano aveva dedicato una recensione all’ultimo libro dello studioso toscano “Oltre il cristianesimo”.
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Questa recensione, firmata dal filosofo Roberto Esposito, titolava “Se per trovare Dio bisogna rinnegarlo”. Titolo che può sembrare ermetico, ma che comunica esattamente ciò che Vannini intende per “mistica”. Ed è da qui che bisogna partire.
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Se per l’uomo della strada sono espressioni di misticismo quelle manifestazioni misteriose (e infatti il termine misticismo deriva dalla parola greca che significa “misterioso”) di esaltazione estatica, di esoterismo o di devozione pregna di sentimentalismo, di manifestazioni più o meno trasudanti superstizione o eccessi psico-somatici, Vannini – lo scrive nella sua ampia Storia della mistica occidentale – è tassativo: “Se questa è la mistica è davvero meglio perderla che trovarla”.
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E, al contempo, traccia una sua personale – che qualcuno potrebbe trovare assai discutibile – “linea invalicabile”: là dove c’è “alterità” di Dio rispetto all’uomo, alterità tra creatore e creatura, non può esserci mistica, che è espressione dell’Uno; non di due che, per attrazione o repulsione, per amarsi o per fare a botte, si vanno incontro.
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Non si può parlare quindi di “mistica islamica” né di “mistica ebraica”, dove l’alterità di Dio è un assunto indiscutibile, ma solo per il cristianesimo, perché con “Gesù compare qualcosa di radicalmente nuovo e inaudito: un uomo che afferma l’identità con Dio (…) ed è abbastanza normale pensare che quello che vale per l’uomo Gesù possa e debba valere anche per ogni singolo uomo”.
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È la strada tracciata dal quarto evangelista, quel Giovanni – vero fondatore della mistica cristiana secondo Vannini – il cui prologo, “In principio era il Logos, e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio”, è stato citato , non a caso, anche da Scalfari nella prima delle due lettere aperte al Papa.
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E se l’imitatio Christi che l’apostolo Paolo – da molti considerato il vero “inventore” del cristianesimo – propone alle genti “implica la fine dell’uomo vecchio, dell’uomo carnale, dell’uomo esteriore, e l’assunzione delle forme dell’uomo nuovo, spirituale, interiore”, il passaggio mistico da lui iniziato è completato da Giovanni “…come Cristo è Dio, una sola cosa con il padre, così il cristiano, unito a Cristo come i tralci alla vite, è Dio in Dio”. Nel cristiano – viene detto – brilla quella luce che è incarnata nel Cristo: la “luce dell’uomo interiore” di Vito Mancuso.
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Ma attenzione a non cadere nella facile trappola di interpretare queste parole come superficiale proselitismo e apprezzamento della Chiesa come istituzione e architettura dogmatica, perché per Vannini la mistica è opposta anche alla teologia, in quanto l’esperienza dell’Uno non può accordarsi con il canone teologico.
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È oltre al cristianesimo, infarcito e corrotto da teologia e dogmatismi, che bisogna andare dunque, ma senza rinnegarne le origini, verso quella pura spiritualità che il messaggio cristiano conteneva nella sua forma iniziale e che Vannini ritiene di trovare, sulle orme del benedettino francese Henri Le Saux, monaco diventato eremita alle pendici indiane dell’Himalaya, in alcuni aspetti della tradizione buddista e induista.
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“Qui, infatti, il nocciòlo veritativo del cristianesimo – consistente nel buon annuncio del fatto che, nel profondo, uomo e Dio coincidono, e che questa pacificante e beatificante unione all’Assoluto la si può raggiungere già qui ed ora, attraverso il distacco dall’io – è rintracciato pressoché identico nelle grandi spiritualità induista e buddista”, affermaBeatrice Iacopini su il Manifesto.
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“In gioco è una spiritualità che, muovendo dall’interno del cristianesimo, va oltre la dogmatica, oltre la morale, verso l’esperienza interiore dell’Uno, e che restituisce un’immagine della religione cristiana forse spiazzante, ma che a ben vedere ne coglie invece il nucleo centrale, rendendo superflui gli elementi irrazionali, mitici, addirittura superstiziosi, che l’analisi storico-scientifica oggi ha dimostrato improponibili e che finiscono peraltro per sminuire il cristianesimo, facendone un insieme di credenze buone solo per chi abbia rinunciato a pensare”.
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Ci piacerebbe sapere quali sono questi elementi improponibili (la resurrezione i miracoli? la verginità della Madonna?) ma intanto prendiamo nota che la religione come la conosciamo, è buona solo per chi ha rinunciato a pensare (e su questo, sia detto senza supponenza, non avevamo alcun dubbio).
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La filosofa Roberta De Monticelli – nella sua prefazione ad un altro testo di Vannini non a caso titolato “La religione della ragione” – rincara la dose: “la questione di fondo di questo libro è il disagio dell’intelligenza che affligge il cristianesimo fin dai suoi inizi”.
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Bisogna dunque cercare altro, ci viene detto, per trovare un po’ di intelligenza nel cristianesimo, pur rimanendo – per chi lo volesse – nell’ambito della fede. O, forse, a cavallo tra fede e non-fede. O nella non-fede. Che forse è la vera fede.
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Insomma, la questione si complica.
Continua …
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