di Gian Carlo Zanon
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Il 13 aprile 2013 La Repubblica pubblicava un articolo di Milan Kundera dal titolo L’insostenibile bellezza del Processo di Kafka. Senza dubbio il titolo dell’articolo è stato inserito da un redattore a corto di idee; se così non fosse l’autocitazione sarebbe molto kitsch. Kundera, è un ottimo narratore, almeno così ci suggerisce la sua indubbia fortuna letteraria, ma, forse, non è un buon critico letterario. Certamente non è un buon lettore di Kafka che non sembra apprezzare molto.
L’articolo, che in calce proponiamo per intero, inizia facendo un nesso improponibile , immediatamente smentito nello stesso paragrafo, che unisce Kafka al movimento artistico surrealista e/o viceversa.
L’altro nesso incomprensibile è quello con García Márquez, il cosiddetto creatore del Realismo magico: « “È Kafka che mi ha fatto capire che un romanzo si poteva scrivere in un altro modo”, mi ha detto una volta Gabriel García Márquez. » scrive Kundera.
Il motivo per cui lo scrittore colombiano disse a Kundera questa frase non si capisce visto che nulla di ciò che ha scritto ha lo stile, il ritmo, il valore letterario o qualche lontana somiglianza con l’opera kafkiana. I debiti di Marquez, per sua stessa ammissione, vanno al vero creatore del Realismo magico sudamericano: Alejo Carpentier. Márquez confessò che aveva già scritto tre quarti di Cent’anni di solitudine quando lesse El siglo de la luz di Carpentier pubblicato nel 1962; l’impatto di quel testo fu tanto forte su di lui che gettò nella spazzatura ciò che aveva scritto e ricominciò di nuovo. L’unico autore “di razza”che attinge fortemente alle atmosfere kafkiane è Julio Cortàzar trovando però una propria strada percorrendo la quale diverrà un gigante della letteratura mondiale .
Ma questa è storia della letteratura. Quella pubblicata a proprio uso e consumo da editori e da scrittori autoreferenziali si chiama marketing. Poi c’è l’ignoranza congenita e la vigliaccheria di chi scrive copiando idee sulla letteratura senza rischiare mai una propria individuale, e responsabile, visione.
Ma torniamo a Kundera. Egli, dopo aver, giustamente, rifiutato le teorie di illustri kafkologi – tra cui lo stesso amico Max Brod – i quali, per evidenti problemi religiosi non risolti, affermano che K. il protagonista de Il processo nasconde una grave colpa , scrive che la chiave per capire questo romanzo sta nella “colpevolizzazione” :«Ora, – scrive Kundera – K. non è innocente né colpevole. Egli è un uomo colpevolizzato, cosa del tutto diversa. (…) – ogni uomo è colpevolizzabile; la colpevolizzabilità fa parte della condizione umana. La colpevolizzabilità è sempre fra noi, sia quando la nostra bontà teme di ferire i deboli, sia quando la nostra viltà ha paura di offendere quelli più forti di noi. »
Cerco di sforzarmi per dare un senso a queste parole di Kundera ma credetemi proprio non ce la fò. Darsi una colpa inesistente non fa parte della condizione umana. Si vive il senso di colpa, e il protagonista senza dubbio anche se in maniera ambivalente lo vive, se una colpa la si è commessa. Kafka non ci dice qual è la colpa di K.. Forse non lo sà neppure lui.
La “condizione umana” non è geneticamente determinata, chi si colpevolizza senza aver commesso nessuna colpa, conscia o inconscia, lo fa perché ha perduto parte di se stesso a causa di qualche “delitto inconscio”. Ha perduto se stesso scindendo il corpo dala mente e alienando porzioni di Sè in una divinità che lo “costringe” a credere di essere nato con un peccato originale inestinguibile. Dall’alienazione religiosa al senso di colpa metafisico e permanente, il passo è breve.
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«Kafka scrive, splendido, l’impossibilità di sfuggire al senso di colpa per un male radicale dentro l’essere umano» (Massimo Fagioli – Left 19 settembre 2015)
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Leggendo tra le righe di quanto Kundera afferma e di quanto riporta del kafkologo Eduard Goldstücker «(K. il protagonista de Il Processo) ha lasciato che la sua vita si trasformasse in quella di una macchina, di un automa, di un alienato» e così facendo ha trasgredito «la legge alla quale tutta l´umanità deve sottomettersi e che recita: sii umano» si possono trovare degli spunti molto interessanti.
Come ho cercato di raccontare in altri due articoli (leggi quie qui) la chiave per capire i romanzi di Kafka sta nascosta in lui, nella sua identità umana . Possiamo però avvicinarci leggendolo con attenzione.
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Per aprire le chiavi di Der Process (il titolo assente nel manoscritto è stato apposto da Brod) ho pensato di analizzare brevemente in racconto Relazione per un’accademia e la famosa Lettera al padre. Ho scelto di questi due testi perché a mio giudizio lì si possono cogliere alcuni temi importanti della poetica kafkiana. Uno in particolare: la ricerca del senso della propria realtà umana nel rapporto con il mondo umano esterno.
Devo confessare che da qualche tempo, me ne assumo la responsabilità, “traduco” Il Processo con “Il sistema”.
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K. il protagonista de Il castello, e Rotpeter la scimmia protagonista del racconto Relazione per un’accademia, sono due facce della stessa medaglia in cui è possibile scorgere il profilo dello scrittore praghese. K. e Rotpeter sono i due modi possibile di rapportarsi al “sistema” : aderirvi perdendo la propria identità (Rotpeter) rifiutarlo perdendo la vita (anche a causa di un inconscio senso di colpa) (K.).
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Ciò che K. non vuole assolutamente fare è entrare nel processo/sistema perché “consciamente” pensa di non aver alcun debito da pagare. Alla fine viene ucciso come un cane per il suo rifiuto di un sistema che egli rifiuta: «non c’è dubbio – declama K. davanti al giudice istruttore e a tutta l’assemblea – che, dietro tutte le espressioni di questo tribunale, nel mio caso dunque dietro l’arresto e l’odierna udienza, ci sia una grande organizzazione. Un’organizzazione che non solo dà lavoro a guardie corruttibili, a stupidi ispettori e a giudici istruttori che nel migliori dei casi sono mediocri, ma che deve anche mantenere una magistratura di alto e altissimo grado, con il numeroso e inevitabile seguito di scrivani, gendarmi e altri aiuti, forse persino di carnefici, non esito a pronunciare questa parola ».
Mi sembra chiaro che Kafka parli di un sistema a cui non vuole aderire, costi quel che costi. Di questa e di altre molteplici tracce che confermano che Il processo se debba intendere come il sistema è disseminato questo romanzo .
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Invece Rotpeter la scimmia risolve il problema identitario «Rimanere ostinatamente attaccati alle propria origine? O imitare gli uomini?» identificandosi con il sistema e aderendo al ruolo claunesco che gli umani hanno riservato per lui: «Io, scimmia libera, mi sottoposi a questo giogo».
Rotpeter fa una scelta diversa da K.: dopo aver assorbito ogni movimento degli uomini apprenderà anche la loro forma verbale imitandoli: «Era così facile imitare la gente. A sputare, imparai fin dai primi giorni. Ci sputavamo in faccia a vicenda; l’unica differenza era che dopo io mi leccavo la faccia per pulirla, loro no. (…) La fatica maggiore me la procurò la bottiglia di grappa. L’odore mi ripugnava; mi costrinsi con tutte le forze; ma ci vollero settimane perché riuscissi a vincermi. Queste lotte interiori, sorprendentemente, furono dall’equipaggio prese sul serio più di ogni altra cosa». Ed è chiaro che Kafka più o meno consapevolmente si riferisce a modificazioni traumatiche dell’identità originaria, altrimenti non parlerebbe di “lotte interiori”.
Ed è intorno a questo dramma “dell’identificazione con il più forte”, raccontato da Kafka anche nel testo Lettera al padre, che ruota questo racconto. In maniera esplicita ne La lettera e poeticamente in questo racconto, Franz riflette sulla rinuncia alla propria originale nascita per ‘vivere’ con gli altri esseri umani. In realtà, pagherà ,come K., a caro prezzo il proprio rifiuto dell’inumanità del sistema sociale che lo attornia.
Entrambi i protagonisti dei testi sottolineati vengono ad un certo punto della propria vita proiettati loro malgrado di fronte ad in un sistema sociale che non è loro congeniale perché essi mantengono ancora inalterata la propria identità che li identifica distinguendoli dal resto del mondo umano. Rotpeter perde la propria naturale identità adeguando il proprio essere al sistema sociale; K. tenta un estrema lotta non solo per salvare se stesso ma la società stessa «Quello che mi è accaduto – dice K. all’assemblea – è solo un caso isolato e come tale non molto importante, dal momento che non me ne preoccupo molto, ma è anche il segno di un modo di procedere che viene adottato a danno di molti. Ed è per costoro che io sono qui, non per me».
Il dramma presente nei due testi e nella Lettera al padre parla di un conflitto risolto eroicamente da Kafka con il rifiuto del sistema di cui i padre è parte integrante.
Kafka rappresenta e racconta la realtà umana esterna con la quale confligge. E più una natura umana è particolarmente “esagerata”, come quella di Kafka, e più essa entra in conflitto con gli “altri” che tacitamente ogni ora del giorno gli ordinano di divenire un loro pari, un altro ingranaggio del sistema.
Certamente sbaglia quindi Eduard Goldstücker, citato poc’anzi. Si sbaglia perché confonde l’indifferenza di K. verso quel sistema sociale corrotto con alienazione e disumanità. È molto probabile che il modello di umano per Goldstücker è quello freudiano che mette a cardine dell’identità maschile l’identificazione coatta con il padre. E il padre ideale di cui parla S. Freud è quello descritto nella Lettera al padre di Kafka.
Kundera scrive : «Kafka non ha mai formulato riflessioni astratte sui problemi della vita umana; non amava inventare teorie; atteggiarsi a filosofo; non assomigliava né a Sartre né a Camus; le sue osservazioni sulla vita si trasformavano immediatamente in fantasia; in poesia – la poesia della prosa.» A parte l’assurda analogia con i due scrittori francesi, soprattutto quella con Sartre, aggiungerei solo che non aver mai scritto esplicitamente la propria visione sulla realtà umana – e non è vero basta leggere la Lettera al padre – non esclude che egli non vi abbia pensato fortemente. Le sue riflessioni, come scrive Kundera, sono sfociate in quella letteratura imbevuta di senso che io, lui e noi, leggiamo e studiamo da anni.
Ma al contrario di Kundera, e di ciò che Kundera scrive di lui, Kafka non aveva quella insostenibile leggerezza dell’essere, che, visto che mi piacciono le traduzioni, potrei tradurre come stolidità e anaffettività.
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28 agosto 2013
Ultima correzione 25 settembre 2015
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L’insostenibile bellezza del Processo di Kafka.
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Milan Kundera
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Si sono scritte un numero infinito di pagine su Franz Kafka, eppure è rimasto (forse proprio grazie a questo numero infinito di pagine) il meno compreso di tutti i grandi scrittori del secolo scorso. Il processo, il suo romanzo più noto, cominciò a scriverlo nel 1914, esattamente dieci anni prima che uscisse il primo Manifesto dei Surrealisti, i quali non avevano la più pallida idea dell´immaginazione «surrealista» di un Kafka, autore sconosciuto e i cui romanzi sarebbero stati pubblicati molto tempo dopo la sua morte. È perciò del tutto comprensibile che questi romanzi che non assomigliavano a nulla siano apparsi estranei al calendario della storia letteraria, nascosti in un luogo che apparteneva soltanto al loro autore. Eppure, malgrado l´isolamento, le loro anticipazioni estetiche rappresentavano un evento che non poteva non influenzare (anche se a scoppio ritardato) la storia del romanzo. «È Kafka che mi ha fatto capire che un romanzo si poteva scrivere in un altro modo», mi ha detto una volta Gabriel García Márquez.
Kafka, come si può vedere chiaramente nel Processo, analizza i protagonisti dei suoi romanzi in maniera del tutto particolare: non dice una parola sull´aspetto fisico di K. né sulla sua vita prima dei fatti narrati nel romanzo; anche del suo nome ci permette di conoscerne soltanto una lettera. Invece, dal primo paragrafo alla fine del libro, si concentra sulla situazione del personaggio, sulla situazione della sua esistenza
Il Processo esplora la situazione di colui che è accusato. All´inizio tale accusa si presenta in modo piuttosto divertente: un mattino due signori del tutto ordinari giungono a casa di K., che è ancora a letto, per informarlo, nel corso di una piacevole conversazione, che è accusato e che l´esame del suo caso andrà per le lunghe. La conversazione è tanto assurda quanto comica. Del resto, quando Kafka lesse per la prima volta questo capitolo ai suoi amici, tutti si misero a ridere.
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Delitto e castigo? Ah no, queste due nozioni dostoevskijane non c´entrano assolutamente nulla. Ciononostante reggimenti di kafkologi le hanno considerate come i temi principali del Processo. Max Brod, il fedele amico di Kafka, non ha il minimo dubbio che K. nasconda una grave colpa: secondo lui K. è colpevole di “Lieblosigkeit” (incapacità di amare); allo stesso modo Eduard Goldstücker, un altro celebre kafkologo, pensa che K. sia colpevole «perché ha lasciato che la sua vita si trasformasse in quella di una macchina, di un automa, di un alienato» e così facendo ha trasgredito «la legge alla quale tutta l´umanità deve sottomettersi e che recita: sii umano». Ma ancora più frequente (e io direi ancora più stupida) è l´interpretazione contraria che, per così dire, orwelizza Kafka: secondo tale lettura K. è perseguitato dai criminali di un potere “totalitario” ante litteram, com´è il caso, ad esempio, del celebre adattamento cinematografico del romanzo realizzato nel 1962 da Orson Welles.
Ora, K. non è innocente né colpevole. Egli è un uomo colpevolizzato, cosa del tutto diversa. Sfoglio il dizionario: il verbo colpevolizzare è stato usato in Francia per la prima volta nel 1946 e il sostantivo colpevolizzazione ancora più tardi, nel 1968. La nascita tardiva di queste parole prova che non erano banali: ci facevano capire che ogni uomo (se posso io stesso giocare con i neologismi) è colpevolizzabile; che la colpevolizzabilità fa parte della condizione umana. La colpevolizzabilità è sempre fra noi, sia quando la nostra bontà teme di ferire i deboli, sia quando la nostra viltà ha paura di offendere quelli più forti di noi.
Kafka non ha mai formulato riflessioni astratte sui problemi della vita umana; non amava inventare teorie; atteggiarsi a filosofo; non assomigliava né a Sartre né a Camus; le sue osservazioni sulla vita si trasformavano immediatamente in fantasia; in poesia – la poesia della prosa.
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Un giorno K. è invitato (da una voce anonima, per telefono) a presentarsi la domenica successiva in una casa di periferia per partecipare a una breve inchiesta che lo riguarda. Per non complicare e tanto meno prolungare il processo, decide di ottemperare all´invito. Dunque ci va. Sebbene non sia stato convocato a una ora precisa, si affretta. All´inizio vuole prendere un tramvai. Poi si rifiuta per non umiliarsi, grazie a una puntualità troppo docile, davanti ai suoi giudici. Tuttavia non desidera prolungare lo svolgimento del processo e perciò si mette a correre; sì, corre (nell´originale tedesco la parola “correre”, “laufen” si ripete tre volte nello stesso paragrafo); corre perché vuole salvare la sua dignità e, allo stesso tempo, per non arrivare in ritardo a un appuntamento la cui ora resta sconosciuta.
Tale combinazione di gravità e leggerezza, di comicità e tristezza, di senso e non senso, accompagna tutto il romanzo fino alla esecuzione di K. e fa nascere una bellezza strana e incomparabile; mi piacerebbe definire questa bellezza, ma so che non ci riuscirò mai.
Insostenibile leggerezza dell’essere Io tutta sta allegria e leggerezza in kafka non riesco proerio a trovarla .. ma neppure in quel romanzo che rese Famoso Kundera
(Da: La Repubblica del 13 aprile 2013) http://cedocsv.blogspot.it/search/label/Franz%20Kafka
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Richárd Vincent Janczer
26 Luglio 2014 @ 13:48
Il cavaliere del secchio, Gregor Samsa trasformato in scarafaggio: Kundera se lo cita tra virgolette come surrealista é perché Kakfa, oltre alla facile immagine di “prosatore dell’incubo” é colui che usa il fantastico per dipingere l’assurdo, la dimensione onirica é presente (Gregor Samsa quando si risveglia deve affermare a se stesso che non é un sogno quello che vive). Kundera dice che Kafka non arriva a postulati o affermazioni universali, non fa affermazioni alla Cioran sul mal di vivere, non che non ci pensasse affatto.
Kundera parla di “colpevolizzabilitá”, non di “colpevolezza”.
Kundera cita Sartre e Camus perché la letteratura su Kafka li cita, non é lui a volerlo.
Garcia Marquez é un imitatore di Kafka, é vero, anche se fa cilecca. rileggendo Cent’anni… noterai che Garcia Marquez spezza ogni tanto la narrazione con dei passaggi brevi, tre o quattro righe al massimo in cui crea un abisso, un incubo, , questo non basta a renderlo kafkiano, vorrebbe esserlo ma non lo é, ma é innegabile una volontá di emularlo.
Anche io parteggio per interpretare Kafka in base al suo lato umano, di figlio del signor Kafka ma fraintedere cosí uno dei suoi migliori interpreti! Spero di averti chiarito i dubbi.
P.s: Stolidità e anaffettività “l’insostenibile leggerezza dell’essere”? Evito di commentare.