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Riproponiamo gli articoli che Salvo Carfì scrisse lo scorso anno sul tema della molteplicità del reale
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La rappresentazione
di Salvo Carfì
Buongiorrrrno cari lettori,
Oggi … non splende il sole, avete dormito poco e male e state pensando che sarebbe stato meglio andare a lavorare piuttosto che stare chiuso in casa pensando a una vita sprecata … non preoccupatevi nessuna vita è sprecata … persino la vostra ha un senso. Ma lasciamo perdere le gratificazioni … oggi, per continuare a trattare le “realtà parallele”, parleremo di … tatta ra- taaaaaa! Rappresentazione.
Si perché anche la rappresentazione può essere considerata una realtà parallela anche se non è propriamente realtà. Ho un dubbio: possiamo dire che pur non essendo realtà al 100% , la rappresentazione non ha nessun valore etico oppure che non ha alcun senso? Vediamo di capire meglio …
«Questo è un caso in cui la creazione artistica è stata capace d’accrescere la conoscenza della realtà» Questa frase è stata estratta dalla lettera che Giovanni Moro, figlio dello statista assassinato dalle Brigate Rosse, scrisse al produttore del film Buongiorno notte, di Marco Bellocchio, quando il film uscì nelle sale.
Strana frase. È come se assurdamente dicesse che ‘l’infedeltà’ ai fatti reali ha il potere di approfondire la verità.
Ma come può una rappresentazione artistica accrescere la conoscenza della realtà e quindi divenire più vera della realtà vera? È come affermare che per conoscere la realtà, si dovrebbe passare attraverso l’espressione artistica, la quale, come in questo caso, caricando di senso la storia, genera affetti, passioni che divengono poi strumenti per raggiungere una verità più profonda, più vera.
Un artista , in questo caso un autore cinematografico, crea un’opera d’arte che nel pensiero dei fruitori diverrà la vera storia degli accadimenti del caso Moro. E questo forse è accaduto anche per la figure storiche di Antonio e di Giulio Cesare nel dramma di Shakespeare, ma anche nel film di Mankiewicz tratto dall’opera del Bardo. Bellocchio ha creato il mito di Aldo Moro usando gli strumenti del cinema ed ha raccontato mitopoeticamente – cioè ha “fatto la realtà” – una storia reale esistita. Il regista piacentino ha usato l’accadimento come materiale per raccontare un altro vissuto, come fa chi sogna.
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Quando si dice Guernica la prima immagine che viene in mente è il famoso quadro di Picasso che è memoria del bombardamento aereo del 26 aprile 1937 dell’omonima città spagnola da parte della Legione Condor della tedesca Luftwaffe. Nessuno penserebbe più alla città distrutta dal bombardamento se Picasso non avesse saputo tradurre artisticamente quella tragedia amplificandone il senso. Il ricordo del vile bombardamento sui civili di Guernica senza quel quadro si sarebbe perso nel tempo; Picasso scavando in quella realtà storica l’ha fatta divenire universale e quindi indimenticabile.
Questi narrati sono casi in cui l’arte trasfigurando la realtà, la carica di senso. La rappresentazione quindi diviene più vera della verità vera perché è il contenuto di quella verità-realtà.
A questo punto ci si potrebbe chiedere: perché l’essere umano rappresenta? E qual è la matrice, la dinamica inconscia che lo spinge a ricreare poeticamente il proprio vissuto? Qual è la dinamica, la matrice che permette all’attore di vivere un personaggio e poi uscirne indenne senza impazzire nella confusione tra realtà e finzione?
Pensiamo ad un’attrice che interpreta la parte di Antigone, poi sveste i panni dell’eroina, mette un paio di jeans e torna a casa in motorino. Oppure un bambino che gioca ai “super eroi” convinto di essere un eroe spaziale ma che, al primo richiamo della madre, «… la cena è pronta», lascia tutto, si siede a tavola come niente fosse accaduto chiede del suo papà o di qualcos’altro di assolutamente reale.
Questo rapporto tutto umano con la dimensione artistica, che ricreando la realtà la approfondisce, e la possibilità di separazione da essa per tornare allo stato razionale e cosciente, è di difficile definizione.
Sappiamo che la percezione dell’oggetto, soprattutto se parliamo della visione dell’altro da sé, non è mai oggettivamente pura. Guai se lo fosse. L’individuo, più avrà un’immagine interna integra di sé, più, nella percezione dell’oggetto, prevaricherà la realtà mantenendo però uno stretto rapporto con essa. È questa la sottile linea che divide la percezione poetica dal delirio. Per il paranoico delirante la realtà è solo il mezzo da usare per i suoi pensieri alterati; per l’artista l’oggetto percepito è ricerca, a volte dolorosa, del senso più profondo della realtà. Perciò la sua percezione è indagine della realtà. Più un individuo avrà un’immagine interna valida più sarà poeticamente attivo nel confronto/scontro (creativo e non distruttivo) con realtà che lo circonda. Il suo non sarà un vedere passivo ma un guardare attivo.
Ma come avviene la percezione, come ci rappresentiamo la realtà?
Vocabolario Zingarelli: «Rappresentazione: operazione conoscitiva in base alla quale un oggetto risulta più o meno chiaramente presente alla coscienza; Dal latino repraesentatio , il suo primo significato è presentare di nuovo» A noi di questa definizione interessa soprattutto questo “presentare di nuovo”: se una figura si presenta di nuovo sotto forma di immagine poetica non è più percezione pura. A meno che non si tratti di un banale ricordo cosciente … ma qui si parla di rappresentazione come memoria e di creazione artistica. E se esiste una differenza tra figura ricordata esattamente uguale all’oggetto percepito e una memoria che ricrea la percezione, ci dovremmo chiedere cosa avvenga nel momento della percezione.
Si potrebbe pensare che esiste una percezione che afferra solo l’oggetto – conservandolo materialmente inalterato nella rete neuronale come un ricordo fotografico? Si potrebbe supporre che esista invece una percezione, unita alla sensazione, che imprime nella mente sia l’oggetto percepito sia il senso-affetto che noi aggiungiamo, fondendoli sincreticamente nel momento stesso in cui l’oggetto viene conosciuto attraverso i sensi?
Possiamo dire che la percezione pura è quella della luce che avvolge l’oggetto e si ferma al lobo occipitale? Possiamo dire che la percezione pura è solo quella che entra nell’occhio dalla retina e che diventerà poi ricordo cosciente, ‘fotografia’? Possiamo dire che la percezione si forma definitivamente nell’istante in cui l’oggetto, dopo essere stato impresso sulla retina, viene alienato nello spazio? Possiamo dire che la percezione poetica è quella che si fonde con la sensazione, mentre la percezione tout court serve solo a ricordare le cose materiali?
Ma, sempre più difficile … forse si potrebbe parlare di percezione sincretica vale a dire che la percezione, ciò che vediamo nella mente, è il rapporto tra oggetto reale e la nostra immagine interna che permea la realtà esterna.
Naturalmente questo incontro/scontro che è immanente alla percezione, e che è diverso in ognuno di noi, dovrebbe avvenire nell’istante dell’evento percettivo. E se è così quindi la realtà contingente e la storia in realtà sono frutto della molteplicità dello sguardo …
Ma fermiamoci un po’ a riprendere fiato …
12 maggio 2012