• Le porte d’oro dell’invisibile – 787: secondo Concilio di Nicea

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    porte d'or

    di Gian Carlo Zanon

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    Le risoluzioni approvate nel 787 d. C. dal Secondo Concilio di Nicea, regolarono e codificarono la rappresentazione delle immagini sacre. Questa ratifica del Concilio niceno mise fine all’iconoclastia iniziata quasi sessant’anni prima con l’editto dell’imperatore d’Oriente Leone III l’Isaurico. Il concilio fu convocato su richiesta di papa Adriano I e dall’Imperatrice d’Oriente Irene per deliberare sul culto delle immagini, (iconodulia)  e le sue conclusioni permisero il ripristino dell’espressione artistica delle immagine sacre, anche se entro certi limiti e con caratteristiche rappresentative coartanti. Gli atti del secondo concilio di Nicea,  possono aiutarci a comprendere la storia e il senso che le immagini hanno avuto nei secoli nell’occidente cristiano.

    Il cristianesimo, all’inizio della sua diffusione nell’impero romano non possedeva una eredità artistica; il giudaismo, da cui proveniva, vietava la rappresentazione del sacro e del divino. Lo stesso vale per il primitivo paleocristianesimo, che faceva ricorso a simboli come, pesce, ancora, agnello, vite, cc.. Con Paolo di Saulo, sotto l’impulso della cultura greca, i cristiani cominciarono a decorare i luoghi di culto, e il passo successivo fu inevitabilmente la rappresentazione del sacro in forma metaforica-narrativa. In particolare, nella chiesa orientale le immagini finirono per non avere solo una funzione decorativa, ma furono poste al centro della vita liturgica e, col tempo, attorno ad esse cominciò a svilupparsi un vero e proprio culto. Tutto questo fino a che con gli editti del 726 e del 730 Leone III  proibì il culto delle immagini sacre perché ritenuto idolatra.

    Il Secondo Concilio niciano, per i suoi presupposti teoretici, ci permette, ora, di elaborare una ricerca sul significato delle immagini artistiche,  sul rapporto tra oggetto – soggetto, e sull’affascinate storia di quell’arte che mira allo svelamento dell’invisibile: come affermava Kandinski, «l’opera artistica rende visibile l’invisibile e rende invisibile il visibile».

    In effetti l’arte dovrebbe sempre aspirare all’Apocalisse nel suo stretto senso etimologico, vale a dire togliere il velo a ciò che è non conosciuto; la rappresentazione artistica quindi dovrebbe far emergere l’invisibile, magari mostrandocelo deformato come nell’astrattismo, trasformando cioè una forma certa in un segno che apparentemente non ha nulla a che vedere con l’oggetto rappresentato, ma che ha la capacità di far scaturire il contenuto dell’oggetto stesso. Contenuto che è l’essenza invisibile dell’oggetto rappresentato.

    In altri termini, e con buona pace della mimesis aristotelica, l’essenza dell’immagine artistica consiste non nel riprodurre, bensì nel rendere visibile i contenuti della realtà materiale. Contenuti che senza l’immagine creata non sarebbero visibili: il senso, il contenuto dell’oggetto, si rivela nell’immagine artistica più o meno nello stesso modo in cui i pensieri inconsci si rivelano nelle poesie o nei sogni. La differenza come disse qualche hanno lo psichiatra Massimo Fagioli sta nel fatto che mentre il sogno è “un’immagine inconscia onirica”, l’opera d’arte è “un’immagine inconscia non onirica”.

    Certo, nel caso della poesia, c’è da chiedersi se il pensiero verbale abbia una validità epistemologica maggiore nello svelamento dell’invisibile di quella operata dalle immagini: le immagine del sogno vengono interpretate con il linguaggio verbale, il quale svela il contenuto di esse. Le immagini del sogno rimarrebbero senza conoscenza se qualcuno, usando il linguaggio verbale, non le interpretasse. Si potrebbe anche dire che l’immagine artistica al più può suggerire e suscitare un pensiero in grado di svelare l’invisibile.

    L’invisibile  è esistente, quindi è un’essenza esistente anche se questa non è afferrabile dai cinque sensi. Cinque sensi che sono predisposti per la ‘percezione animale’ o se vogliamo razionale e scientifica.

    Quindi questa essenza invisibile può essere ‘percepita’ attraverso una sensazione che è estranea alla percezione; strano gioco di parole. Gioco di parole dovuto al fatto che, nella lingua italiana, non ci sono parole che indicano esplicitamente questo indefinito sentire/avvertire/intuire – nella lingua spagnola il verbo sentir esprime solo l’insorgenza degli affetti, dei moti dell’animo, mai si confonde con l’udire come accade nella lingua italiana. – .

    Ora, nel sistema filosofico cristiano, ma anche in quello mussulmano e giudaico, questo sentire organico interno, queste sensazioni vengono o annullate dalla ragione, o alienate all’esterno e codificate culturalmente a secondo della funzione politico-religiosa necessaria, o quantomeno pensata tale, di un popolo, di una etnia, di una tribù, ecc..

    (È chiaro che le codificazioni culturali che interpretano l’invisibile  – e che a volte divengono leggi scritte – non le fa il popolo ma sempre una casta religiosa legittimata da filosofi, tiranni, governi più o meno democratici, ecc..)

    Ma torniamo un attimo al concetto dell’invisibilità nell’opera artistica. Recita il documento niciano: «nessuno ha mai pensato di  dipingere la sua divinità, giacché, dice la Scrittura, Dio non lo ha mai visto nessuno, Lui infatti è incircoscritto, invisibile, incomprensibile,» non di meno, per coloro che aborrivano l’iconoclastia, esiste l’evento dell’incarnazione di Dio in Cristo e questo accadimento modifica fortemente l’assetto veterotestamentario:  Dio in Cristo si rappresenta, divenendo uomo annulla la sua invisibilità, ed è per questo motivo, secondo la ratifica finale del II Secondo Concilio niciano, che la divinità si può rappresentare nella pittura – ma non nella scultura perché, secondo il documento,  questa assumerebbe significati di idolo e non di icona – .

    Se vogliamo Cristo è stato l’attore che interpreta Dio, come S. Francesco era, come lui stesso amava definirsi, il giullare di Dio. Traendo forza da questi assunti teologici “Nicea Punto due”  permetterà alla cristianità d’oriente di continuare l’arte della rappresentazione che  si evolverà molto più lentamente  di quella occidentale che si affrancò molto prima da precetti e codificazioni religiosi di questo tipo «la fattura dell’ icona non è un’invenzione dei pittori ma uso appropriato e tradizione della Chiesa universale».

    Ma a noi interessa evidenziare un fatto: tutti gli epiteti del dio cristiano, indefinito, infinito, incircoscritto, invisibile, incomprensibile – e aggiungerei il termine coniato da Shelling nel 1800, Das Unbewusste , (inconoscibile) – si possono, anzi, si devono usare per descrivere questo sentire che non ha immagine. Questi aggettivi rivolti all’invisibile sono idee e concetti senza un’immagine che li sostanzi.

    Rappresentare per i cristiani dell’ottavo secolo d. C. significava rappresentare un Dio invisibile; per gli artisti contemporanei rappresentare è il tentativo di rendere manifesta una sensazione invisibile o meglio ancora, l’esigenza insopprimibile di rendere visibile un pensiero che non è ancora verbale ma è un’immagine che racchiude in sé un pensiero-immagine.   Forse, l’immagine dell’artista che ci rimane è quella di un essere umano tormentato da rappresentazioni  che non gli svelano l’invisibile in quanto le sue opere sono solo la porta dell’invisibile.

    Comunque un dato è certo: solo con un pensiero- immagine o con un immagine artistica che sottende un pensiero verbale si può provare ad aprire le porte dell’invisibile.

    12 ottobre 2012

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