di Gian Carlo Zanon
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12 maggio 2013 – Tra pochi giorni si celebrerà in quasi tutti i paesi del globo la Festa del Lavoro.
La Festa del 1° maggio affonda le sue radici nel sangue di operai e sindacalisti che furono assassinati per poter dare a tutti i lavoratori salariati una dignità umana. Dignità che veniva loro negata da chi li vedeva, e li vede, più o meno come bestie aggiogate ai bisogni primari.
La “percezione delirante” verso il lavoratore salariato, negli ultimi anni anziché diminuire è aumentata: si è passati man mano da una visione della classe operaia e contadina animale ad una più “moderna” che reifica l’oggetto da sfruttare. Ora chi sfrutta la mano d’opera con modalità disumanizzanti, percepisce il lavoratore come un utensile da utilizzare fino a che questo si rompe. I metodi di lavoro utilizzati nelle catene di montaggio di Marchionne e la forte “rottura” degli operai, perché costretti a movimenti patogeni, confermano ciò che sto dicendo. Nelle aziende Fiat di Mirafiori e Pomigliano i ritmi produttivi hanno ormai superato il limite della soglia di resistenza psico-fisica delle lavoratrici e dei lavoratori.
Questa metodologia non è solo causa di patologie organiche, o genericamente psichiche, ma anche di una degradazione della consapevolezza di sé come essere umano che genera vere e proprie malattie psichiche che non vengono diagnosticate in quanto chi ne è affetto ha un condotta conformista che rientra in una “norma comportamentale” e quindi il soggetto viene percepito dalla maggioranza della popolazione come socialmente congruo.
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Carusi in una foto di inizio (1910 circa)
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Vi voglio raccontare una storia. È la storia vissuta per decenni, grosso modo dalla seconda metà dell’Ottocento agli primi decenni del Novecento, dai Carusi .
I Carusi erano ragazzini, di età compresa dagli 8 ai 12 anni, a volte anche inferiore. Questi bambini costituivano l’ultimo e più infame anello della catena dello sfruttamento umano. Il loro compito era di trasportare in superficie il materiale roccioso frammentato dai picconieri. I Carusi erano costretti lavoravano otto, dieci ore di lavoro e più, lungo buie scalinate caricandosi sulla schiena sacchi o ceste con 25-30 kg di pietre.
Solitamente il Caruso veniva ceduto dai propri familiari “in affitto” ai picconieri della miniera. I familiari venivano pagati in anticipo per cui si creava un debito che il bambino era obbligato ad onorare spesso lavorando come uno schiavo privato di ogni diritto. Era di fatto impossibile per il Caruso riconquistare la libertà: avrebbe dovuto restituire al suo padrone l’intera somma, con gli interessi maturati, che questi aveva versato ai genitori all’atto del reclutamento. La difficoltà da superare per il riscatto era dimostrato dal fatto che a volte, raramente perché la mortalità era altissima, lavoravano Carusi cinquantenni. Il potere del picconiere sui suoi schiavi era assoluto. Come dicevo, il lavoro del Caruso consisteva nel trasportare all’esterno, attraverso impervi cunicoli, il materiale estratto dai loro padroni picconatori. Il carico, veniva posto dentro cesti di vimini (i stiratura) e caricato sulle spalle protette da una imbottitura, la cosiddetta “chiumazzata”. I bambini sempre mal nutriti, ignudi o quasi, muniti di un gonnellino cinto alla vita a fare da perizoma, erano costretti i portare i carichi in superficie. I ragazzini sottoposti a tali barbarie non crescevano sani, spesso erano storpi e rachitici. Dai documenti raccolti nel 1882 dal Prefetto di Girgenti, in 72 miniere di zolfo della provincia, risulta che lavorassero 2626 Carusi.
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In quegli anni e le zone collinari delle province di Agrigento e Caltanissetta furono scoperchiati per portare alla luce il prezioso elemento che giaceva sotto la superficie. La lavorazione dello zolfo purtroppo creava vapori e miasmi che avvelenavano non solo la campagna intorno, ma anche uomini ed animali. Questi vapori erano il prodotto della lenta combustione del minerale, operazione necessaria ad estrarre lo zolfo in una forma liquida di colore scuro. Cuori e polmoni adulti cedevano sfibrati della insostenibile fatica da sopportare per turni di oltre 12 ore in un ambiente saturo di polveri tossiche. Figuriamoci cosa poteva accadere al corpo di un bambino di otto anni. L‘habitat sotterraneo era reso irrespirabile dalla elevata temperatura interna, tale da obbligare tutti a lavorare praticamente nudi. Una qualsiasi fiamma all’interno delle aree estrattive innescava mortali esalazioni di anidride solforosa, che causava ogni anno centinaia di decessi.
Purtroppo non è finita qua: nelle zolfare siciliane la pederastia era la norma. Molti bambini venivano violentati e uccisi, i loro corpi occultati per sempre nelle miniere.
In quei luoghi questi comportamenti era nomali. Un tacito accordo sociale copriva la vendita da parte delle famiglie dai bambini, la loro schiavitù, la violenza pedofila a cui erano sottoposti, il loro assassinio. In quei luoghi per cinquanta- settant’anni un’intera società, dall’imprenditore che per tutelare i propri guadagni chiudeva un occhio, alla madre costretta dalle leggi patriarcali al silenzio perpetuo, si rese responsabile di questo genocidio.
La storia dei Carusi è una delle tante storie, non raccontate, sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo; una delle più infami ma non l’unica. Sappiamo benissimo che lo sfruttamento di un essere umano su un altro essere umano è normalmente accettata, anche fino alle più gravi conseguenze. La storia dei Carusi non appartiene solo a quel tempo, né solo a quei luoghi: è sempre esistita e continua ad esistere, e l’abitudine, nelle menti abituate a credere anziché a pensare, crea una norma sociale condivisa.
Sono normali le vacanze sessuali in cui migliaia di adolescenti vengono comprati per essere violentati per pochi centesimi. Lo raccontava Moravia delle file di adolescenti che in Africa aspettavano il loro turno per entrare nella stanza di Pasolini. Ma Pasolini guai a toccarlo. La società si chiude in sua difesa. E quando lo fa, senza rendersene conto, crea una norma infame e condivisa. Stesso discorso vale per la mercificazione omo ed etero del rapporto sessuale: uomini che acquistano esseri umani e li utilizzano come latrine per le loro “scariche fisiologiche”. E questo è considerato normale. Nessuno ha mai detto che lo sfruttamento sessuale è quanto c’è di più patologico e degradante nei rapporti tra esseri umani.
Il sangue dei nuovi Carusi non lo vediamo, neppure i loro sogni perduti. Eppure sappiamo che quel sangue è nascosto nei vestiti e nelle scarpe che portiamo, e che i loro sogni sono rimasti impigliati nei mobili e nelle chincaglierie venduti negli sfavillanti negozi che spuntano a lato dei raccordi autostradali che ogni fine settimana si riempiono di gente cieca ed ottusa … cioè quella che corrisponde ai desiderata del sistema finanziario globalizzato e dei politici che con leggi adeguate difendono gli interessi disumanizzanti dei capitalisti.
Domani e dopodomani pubblicheremo due novelle: Rosso Malpelo di Giovanni Verga (1878); e Ciaula scopre la luna di Luigi Pirandello (1907).
I due scrittori siciliani narrano a modo loro il dramma di questi ragazzi costretti al lavoro coatto. In modo naturalistico da Giovanni Verga che traccia la figura tragica di un orfano abituato a lavorare in una cava, vittima di pregiudizi per via dei suoi capelli rossi. Un padre morto nella miniera, una madre e la sorella che lo maltrattano, la morte del suo migliore amico da lui picchiato e sbeffeggiato ma in fondo amato, induriscono il suo giovane cuore.
L’altro è Ciaula, un piccolo Caruso che Pirandello disegna con la sua poetica maestria. Due storie simili, diversamente tragiche e profondamente umane. Due racconti che ridanno vita a tutti i bambini sfruttati a cui viene negata l’identità umana da chi è “normalmente disumano”.
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