• “Le rondini di Tartesso“ – Racconto

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     di Gian Carlo Zanon

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    Capitolo I

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    Molto tempo prima, forse erano già  passati tre anni,  avevano letto un articolo che parlava della mitica città di Tartessos. L’articolo divulgativo informava di nuovi ritrovamenti nell’etremo occidente spagnolo. Con queste scoperte archeologiche si poteva reinterpretare la leggenda-storia dell’antica polis.

    Si narrava anche di una diatriba cattedrattica tra chi, interpretando in un certo modo i resti archeologici, pensava ad essa come una polis fondata dai coloni Fenici in un territorio senza cultura, e chi invece affermava che erano stati i popoli autoctoni a fondarla e ad insegnare la scrittura ai colonizzatori venuti con la forza e l’astuzia a rapinare non solo la plata tartésica ma anche il linguaggio scritto. Su alcuni manufatti rinvenuti, già negli anni cinquanta ma ‘scoperti’ solo di recente, si trovavano incisi dei simboli verbali di un alfabeto arcaico ancora intraducibile.

    Interessante erano i pensieri di una archeologa che aveva affidato ad un libro la sua tesi, ben documentata, che portava un titolo accattivante: Las golondrinas de Tartessos. Quelle che lei chiamava golondrinas, che in lingua castigliana significa rondini, erano le lettere di un proto alfabeto trovato inscritto su pochi utensili, nelle vicinanze di Huelva, dove, dal 1958 in poi la cultura tartésica  si materializzò come per incanto. Una delle lettere, incisa su un pulitore di frecce, assomigliava ad un disegno elementare che rappresentava una rondine con le ali spiegate.

    Quando lessero delle rondini di Tartessos entrambi ebbero un brivido, non uguale, un brivido femminile e un brivido maschile.

    Erano entrati in uno di quei rapporti amorosi … silenzi e suoni abitavano quelli dell’altro e non era strano che si trovassero con gli occhi pieni delle stesse lacrime dell’altro quando, nei cinema, si accendevano le luci in sala.

    Immediatamente Lui prese le parti dei fenici e Lei degli autoctoni perché pensò … “così si può discutere”. Quell’anno decisero che avrebbero visto materializzarsi sotto i propri occhi l’oggetto del loro contenzioso sulla scrittura tartésica. Se la presero comoda: niente aerei e macchine a noleggio; nave Civitavecchia-Barcellona e treni e autobus e barche e quello che sarebbe capitato.

    Quando la nave si staccò dalla sicura terra, con uno strappo senza ritorno, Lui si sentì sfiorato dal fato. Ma presto si persuase, come chi negava i presagi dell’inascoltata Cassandra, che fosse solo un battere d’ali di gabbiano. Quando si girò inquieto, Lei nell’ombra lo stava guardando e Lui le fece un cenno. Tutto sembrava andar bene tra loro. Perché dubitare, tutto sembrava perfetto, e in quei giorni la realtà delle cose era divenuta una nozione fluttuante, come le onde che si creavano nell’incontro e nella separazione tra la nave bianca e l’acqua di mare che la profondità tingeva di blu intenso. Entrati, insieme, in un’altra dimensione sensitiva, lo sguardo si faceva lento, acuto, e prossimo alle cose che oltrepassano la realtà sensibile. Ogni elemento sconosciuto della realtà diveniva traccia da seguire per raggiungere quei varchi dove avrebbero potuto intravedere immagini che andavano a ricomporre qualcosa che, fino a pochi giorni prima, si era scompaginato nella routine nervosa che dava loro un’identità sociale.

    I due, ora, nella calma del viaggio, sempre più pericolosamente vicini, si inoltravano da tempo in mille sentieri della ricerca, guidati dai pensieri che donne e uomini avevano seminato nell’infinito. Avevano letto e studiato i segni fonetici che, muti, raccontavano della presenza umana di chi li aveva tracciati e ora una di queste tracce li trascinava in Spagna, in Andalusia, verso Huelva dalle mille ciminiere maleodoranti del Petrolchimico che, dicevano i pochi articoli letti in Italia, nascondevano Tartessos, l’invisibile.

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    E la ‘videro’ la mitica città di Tartessos narrata oralmente, in epoche oscurate dal tempo, dai Popoli del mare e poi dai canti di cechi cantori, che divennero i Libri dei Re letti e trascritti da Erodoto sui suoi papiri.  La ‘videro’ scorrere dai vetri del bus gelati dall’aria condizionata: fuori c’erano quarantacinque gradi. L’avevano negli anni immaginata, mettendo insieme pezzi di ciò che avevano visto nelle poche foto che erano riusciti a trovare e le molte antiche rovine visitate nel bacino del mediterraneo. Quell’immagine sincretica, immaginata per Tartessos, non funzionava e si andava a infrangere su un paesaggio desolato e sul cartello che indicava “Polígono Industrial de Tartessos”; quando videro la scritta pensarono ad una beffa. Si guardarono negli occhi e silenziosamente si intesero:  era meglio, per il momento, fare una pausa vacanziera. All’autista non bastò uno sguardo per capire perché questi due tipi silenziosi, dopo essere giunti fino al finis terrae, ora volessero tornare indietro senza neppure raccogliere una conchiglia da attaccare sul cappello da pellegrino. Lui, con un fare da depresso, che gli veniva naturale, gli disse soltanto che avevano sbagliato el camino, e che ora volevano tornare indietro, magari verso Cádiz… «Por favor».

    Capitolo II

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    Quando entrarono nell’albergo della città circondata dall’oceano, non si resero conto subito che il nome che vedevano scritto sull’insegna luminosa, Argantonio, apparteneva ad un mitico re di Tartessos. Solo al mattino, i nomi delle stanze – la loro si chiamava Tartesso – di quel bellissimo albergo, che si ergeva su un patio arabo, ricordarono loro la missione, per il momento, abbandonata per il mare, il flamenco, la paella e, forse, chissà, anche la corrida. Tanto la mitica Tartessos sarebbe rimasta lì, ad aspettarli.

    Però, com’è strano il caso: erano fuggiti, momentaneamente, da Tartessos, e si trovavano a dormire in una stanza che portava quel nome. Il destino a cui non credevano li stava osservando? Ma tutto andava liscio, “liscio come l’olio”, Lui sorrise pensando ad un vecchio film, tratto da Le opinioni di un clown di Heinrich Böll, dove l’interprete tornava a casa tutte le sere e chiedeva alla moglie: “Tutto liscio?” e lei “Liscio come l’olio”. Poi un giorno tornando a casa non la trovò più e allora finalmente capì che non andava propriamente tutto “liscio come l’olio”. Il sorriso si fece serio: ancora quella strana sensazione di … qualcosa di indefinibile, lo sfiorò, come alla partenza, sulla nave: «Allora vieni, che fai lì incantato, mi amor» la voce calda di Lei cancellò ogni fantasticheria, e poi portava quel vestito che a Lui piaceva … tanto.

    Sulla spiaggia, rinfrescata dal profumo dell’oceano, riannodarono i loro discorsi letterari. Parlarono dei giorni trascorsi da quando erano sbarcati in Cataluña, e dei personaggi fatti di inchiostro, che, come amici incontrati sul cammino della vita, ora trovavano dimora nella loro memoria.

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    I protagonisti dei romanzi, che leggevano, percorrendo a ritroso la via iberica tracciata da Annibale per raggiungere a Roma, li accompagnavano, a volte discreti, a volte irrompendo nei loro discorsi e nei loro sogni. Infatti, succedeva che le parole, impresse nei libri scelti per il viaggio, nutrissero altre parole dando forma ai loro discorsi poco propensi a scadere nell’ordine del consueto; ed essi erano sorpresi di scoprire, nelle pagine stampate che li accompagnavano, che le cose della mente, ancora senza fonemi agglutinati che dessero immagine certa ai loro pensieri acerbi, esistevano già scritte da sconosciuti; la lacrima, che scorreva a sorpresa sulla pelle del viso, aveva un po’ il sapore di sale della scrittrice o dello scrittore capace di svelare, con le parole dei personaggi, il senso del loro indecifrato sentire.

    E così Blumilda Sette Lune e Baltazar Sette soli, per segrete vie, li informavano del loro amore assoluto e tragico, come spiegava colui che li aveva immaginati, a poche decine di chilometri dal luogo dove essi stendevano i loro corpi al feroce sole di mezz’estate; forse se Lui avesse aguzzato gli occhi, avrebbe potuto scorgere tra le nebbie atlantiche quel convento di Mafra di cui racconta José Saramago. Ma egli fermava lo sguardo ad orizzonti più vicini; non era monco come Baltazar e le sue due mani adoravano Lei, almeno quanto la sola mano di Baltazar adorava la veggente Bluminda. Il viaggio nel tempo e nei luoghi dei passi di uomini e donne, nati dalla fantasia dello scrittore portoghese, divenivano parte della loro realtà e del loro pensiero notturno. La storia del monco e della ragazza, Sette Soli, lui, Sette Lune, lei, li faceva entrare nei racconti immaginati o reali, ed essi vivevano nelle storie dei libri, che sono vere, quasi come i sogni.

    La parola vestita a puntino, che soleva spiegare il reale, era andata in letargo e la loro volontà inconscia voleva tentare di far coincidere le cose incontrate nelle pagine dei libri e le cose pensate dal loro pensiero che si misurava pigramente con la realtà.

    D’altronde calpestavano le terre attraversate da Cervantes e dalla sua creatura, il “cavaliere dalla triste figura”, il quale permeava la realtà umana e naturale con il proprio pensiero, divenuto sguardo poetico.

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    Anch’essi, pur appartenendo all’età tecnologica, irragionevolmente, forse cercavano, come el Quijote, “el pan del trastrigo”, modo di dire intraducibile che significa più o meno: “qualcosa di ancora più buono del pane fatto con la farina”, vale a dire qualcosa di impossibile; lo cercavano quasi senza rendersene conto, dentro se stessi, dentro l’altro, dentro la storia del reino asombroso di Tartessos. Si, irragionevolmente, entrambi, mantenendo nascosto il più profondo segreto da non rivelare mai all’altro, cercavano l’impossibile; senza una mappa e seguendo labili tracce tracciate sulle onde con la schiuma di mare.

    Ma tant’è, come diceva Nazim Hikmet, in quella che è una poetica e meravigliosa sintesi dell’eroe della Mancha «… quando si è presi da questa passione/ e il cuore ha un peso rispettabile/ Non c’è niente da fare , Don Quijote,/ niente da fare/ è necessario battersi contro i mulini a vento/.»

    Non c’era fretta, quell’estate le strade polverose, che portavano al finis terrae , e i letti delle posadas, dove l’urgenza del desiderio, a volte, trovava il suo luogo per il canto dell’Io, stancavano i loro corpi. I due si destavano solo quando, dando fondo a tutti i loro trucchi per rendere enigmatiche le immagini oniriche, i pensieri notturni avevano terminato di allestire gli spettacoli del sogno; così mattini tardivi aprivano i loro occhi e il sole già alto accompagnava le loro corte ombre al tavolo del desayuno dove un pessimo cafè, pane abbrustolito, mantequilla e marmellata li portava un po’ più vicino alle zone della ragionevole veglia.

    In Andalusia, senza saperlo, rigeneravano i linguaggi del rapporto amoroso ascoltando le parole castigliane che gli abitanti arrotondano, quasi sino a farne un patois locale. Quasi tutte le notti incontravano il lamento delle corde ferite dai tocadores di chitarra e il profumo dei gelsomini arrampicati sulle mura andaluse e gli spettacoli di Flamenco nelle città e nei paesi adagiati tra terra e oceano. «Mi amor» la chiamava Lui, sciogliendo il suono nell’aria.

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    Il viaggio era divenuto un elogio alla lentezza, tanto la mitica Tartesso esiste e non esiste, da almeno tremila anni; non si trasforma e non ha movimento se non nella mente di chi, immaginandola, la vuole simile a propri sogni. Le pietre delle antiche polis non conoscono la legge del divenire che trasforma gli esseri umani in ogni istante della loro vita, realizzandone i “destini”, quelli scritti dentro sé stessi, come diceva Cassio, il ribelle: « … il destino caro Bruto non sta nelle stelle , ma in noi stessi.»

    Frase dannata che trent’anni prima aveva cambiato la vita di Lui che allora credeva nel destino tracciato nel tempo astrale. Che Shakespeare sia maledetto, se non avesse letto quella frase non sarebbe qui, ora, a cercare una città fantasma nascosta da ciminiere e dall’oblio di millenni. A pensarci bene, Lui, senza quella frase, forse, non starebbe qui, ora; non esisterebbe neppure in nessun altro luogo … punto. Santo Shakespeare!

    Lui esisteva e le strade calpestate con Lei, lentamente calpestate, e i mulini a vento incontrati sulle vie polverose, mostravano ancora le orme di Don Quijote e di Sancho Panza, e quelle di Lazarillo de Tormez e della Lozana andalusa.

    A Sevilla i muri sfiorati di notte, forse, erano ancora quelli da dove Callisto cadde rompendosi l’osso del collo a causa della Celestina e del suo vacuo ‘amore’ per Melibea … forse.

    Nel barrio de Santa Cruz  le finestre erano uguali a quelle da dove Don Juan Tenorio, el burlador de Sevilla, dopo l’ennesima conquista, fuggiva, braccato dal Commendatore che lo incolpava di sacrilego libertinaggio mentre il profumo dei fiori impazziti di sole copriva l’afrore che l’ombra di Doña Inés de Ulloa lasciava nelle calles, annerite dalla notte.

    Nella città assolata di Burgos  la statua di Rodrigo Díaz conte di Bivar,conosciuto come El Cid Campeador montato sul suo fedele destriero Babieca esibiva la fedele spada, la Tizona, che nella sua mano aveva difeso l’onore di doña Jimena e le porte di Valencia da los moros. Le leggenda del Cid e le gesta raccontate nel Catalogo di Don Giovanni si mischiavano tra loro perché entrambi avevano ucciso il padre della donna amata: il Cantar de Mio Cid raccontava del suo rapporto burrascoso con doña Jimena della quale egli, come don Juan Tenorio, uccise il padre in duello…: “Come ogni amante dovrebbe fare” disse Lei. Lui finse di non capire, veramente non capì subito, neanche quando lesse che la spada de El Cid, temprata con acciaio di Damasco, era l’arma più cara del mondo acquistata per il museo di Burgos per 1,6 milioni di euro. Per capire ci volle del tempo. Solo dopo Lui pensò che, forse, per uccidere i padri delle amanti ci voleva una spada così … si fa per dire. Intanto i personaggi entravano ed uscivano dalla mente dei Due come i vestiti e le camicie che venivano tolti e rimessi nelle valige quasi ogni giorno; non se ne poteva più di personaggi ingombranti e di nuovi alberghi … si fa per dire.

    … continua a leggere Las golondrinas de Tartessos

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