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di Gian Carlo Zanon
Influenzato dall’articolo di Salvo Cotroneo, Banche e furore, apparso qualche giorno fa su queste pagine, sto rileggendo, dopo trent’anni, Furore di John Steinbeck. Cotroneo ha perfettamente ragione quando parla delle similitudini esistenti tra questo libro e gli eventi contingenti della crisi economica.
La crisi economica del ‘29, che sfociò nella Grande depressione, è troppo simile a quella che stiamo vivendo oggi per non tenerne conto. Ora come allora la crisi inizia dopo anni di boom azionario. Ora come allora la crisi è causata dal sistema finanziario. Ora come allora lo stesso sistema finanziario che aveva provocato la crisi lo cavalca con le sue speculazioni, criminali ma legittimati dai governi, provocando sconvolgimenti sociali gravissimi di cui però non se ne ha ancora percezione. O meglio: i guardiani del sistema finanziario, cioè i politici e i e gli addetti alla propaganda mediatica, incanalando a proprio uso e consumo le informazioni, creano una percezione alterata della realtà.
Il libro di Steinbeck pubblicato nel ‘39 e premiato con il Pulitzer nel 1940, apre degli spiragli conoscitivi attraverso i quali si ha la possibilità di decifrare gli accadimenti economici, sociali e politici odierni, coperti da una spessa coltre di menzogne e di omissioni calcolate al millesimo. La capacità percettiva dei cittadini resa porosa da trent’anni di cultura liberista, non è in grado né di avvertire la gelatina di menzogne in cui è avvolta, né di far proprie quelle poche informazioni vere che filtrano soprattutto dalla rete.
E – forse per un difetto di pensiero aggravatosi nei decenni precedenti – anche quando queste “persone di buon senso” vengono a conoscenza di realtà oggettive, che farebbero crollare di schianto l’impalcatura informativa di cartapesta creata dal sistema finanziario, preferiscono dimenticarsene al più presto e infilare la testa in ciò che essendo più familiare, la menzogna, è meno perturbante della realtà.
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Con questa miopia più o meno grave, il cittadino, quando sente un illustre politologo come Marc Lazar dire che Mario Monti ha fatto riconquistare all’Italia “credibilità a livello europeo e internazionale” e che Super-Mario, “nonostante la debolezza economica del paese e la fragilità delle sue istituzioni” viene ascoltato e rispettato dal governo dell’Unione Europea, anziché decifrare il messaggio e reagire vi aderisce acriticamente. Per reagire il cittadino dovrebbe innanzitutto possedere un pensiero coerente che gli permetta ogni giorno di essere impermeabile alla menzogna. In secondo luogo dovrebbe possedere un rete fortificata dalla conoscenza, attraverso la quale passare al setaccio le informazioni che intercetta. E terzo avere per fine il bene comune. Senza questa intenzionalità la conoscenza serve a formulare un lucido e razionale calcolo utilitaristico al servizio della soddisfazione bramosa dei propri interessi.
Sillogismo: quando sento le parole di Lazar penso, a) chi è questo docente e per chi lavora. Lavora per la Luiss, una Università gestita e sovvenzionata da Confindustria e potentati finanziari; b) so che quando si legge “Governo europeo” si deve tradurre in governo della Bce ovvero nel governo sull’Europa di una banca privata che appartiene ai soci di varie banche private, le cosiddette banche centrali nazionali. Partendo dalle due premesse – a e b – giungo alla conclusione che Mario Monti ha “credibilità” ed è ascoltato e rispettato dal Governo europeo – alias Bce – semplicemente perché fa gli interessi dei soci di quella banca che in pratica sono i suoi veri datori di lavoro.
Torno al romanzo di Steinbeck, per dire quanto questo capolavoro della letteratura americana sia illuminante, non solo per quanto riguarda la visione che dà di un sistema bancario e finanziario che era asociale ieri come oggi, ma anche per come illustra le reazioni di coloro a cui vengono tolti quegli elementi primari che rendono l’essere umano tale: dignità e identità.
«E gli occhi dei poveri riflettono, con la tristezza della sconfitta, un crescente furore. Nei cuori degli umili maturano i frutti del furore e s’avvicina l’epoca della vendemmia. »
Sappiamo che la Grande depressione fu causata da paradigmi finanziari errati e asociali esercitati da finanzieri, latifondisti, industriali che avevano nelle loro mani adunche, allora come ora, il potere economico e politico.
L’economista John Kenneth Galbraith ha individuato almeno cinque fattori di debolezza nell’economia americana responsabili della crisi del ‘29:
- cattiva distribuzione del reddito;
- cattiva struttura, o cattiva gestione delle aziende industriali e finanziarie;
- cattiva struttura del sistema bancario;
- eccesso di prestiti a carattere speculativo (Margin);
- errata scienza economica (perseguimento ossessivo del pareggio di bilancio e quindi assenza di intervento statale considerato un fattore penalizzante per l’economia).
Sappiamo che solo grazie alla politica del New Deal di Roosevelt la Grande depressione lentamente rientrò negli argini. Sappiamo che se ne uscì solo perché caddero quelle ideologie finanziarie e vennero sostituite con il metodo dell’economista John Maynard Keynes, e che il suo approccio pragmatico agli eventi ridiede spinta ad un paese giunto quasi sull’orlo del tracollo.
Sappiamo che il metodo keynesiano, venne in seguito messo in soffitta e dichiarato obsoleto dal nuovo liberismo senza regole, di cui Monti è stato e ne è un alfiere. Sappiamo che questo metodo economico in pochi decenni ha ricreato le identiche condizioni finanziarie ed economiche del ‘29.
Sappiamo anche che nessuno finora pensa seriamente a un nuovo New Deal, anche perché ora come allora è osteggiato dai governi e dai politici che sono in pugno al potere finanziario.
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Il futuro è oscuro e i primi fuochi della ribellione vengono accesi nelle nuove frontiere tra umano e disumano. Spero solo che lo scenario di Furore, che in parte ha già preso forma, non diventi cronaca quotidiana.
Come in Furore, anche in Italia abbiamo terreni incolti e siamo obbligati a comprare il grano dalle multinazionali che ne determinano il prezzo. Anche in Italia abbiamo una categoria di schiavi definiti extracomunitari mentre nel libro di Steinbeck vengono chiamati Okies. Ora in tutto il mondo, come in Furore, c’è la corsa all’accaparramento delle risorse naturali – acqua, terreni, spiagge – da parte della finanza. Tante troppe agghiaccianti similitudini tra realtà vera e romanzesca mi spingono a pubblicare un capitolo del libro per mostrare quanto il tempo della Grande depressione sia già presente. Leggete questo capitolo, guardate le immagini della Grande depressione, magari leggete tutto il libro … e poi rimettete a fuoco la realtà che vi circonda.
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John Steinbeck
Furore
Capitolo XIX
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Una volta la California apparteneva al Messico, e le terre ai Messicani; ma orde di straccioni americani irruppero nel paese. E così imperiosa era la loro fame di terra, che si impossessarono della terra di Sutter, della terra di Guerrero, la spezzettarono, si azzuffarono a vicenda per disputarsene le briciole, e munirono di cannoni i poderi così conquistati. Fabbricarono stalle e casolari, ararono i campi e procedettero alle semine. Così, stalle e casolari, campi e raccolti, costituirono titolo di possesso; e il possesso diventò proprietà.
I Messicani, deboli e sazi, non avevano potuto opporsi all’invasione perché non v’era nulla al mondo che essi desiderassero con quella frenesia con cui gli invasori americani desideravano la terra.
Poi, col tempo, i predoni non più considerati tali si dichiararono padroni, e i loro figlioli crebbero nel paese e procrearono altri figlioli. E non sentirono più la fame selvaggia, la fame mordente e lacerante della terra, dell’acqua e del buon cielo sovrastante, dell’erba che sboccia, delle radici che si gonfiano. Possedevano tutte queste cose così completamente, che non le desideravano più. Non conoscevano più la bellezza d’un acro fertile e del lucente vomere che incide solchi in esso, non si commuovevano più dinanzi al mistero della fruttificazione del seme, dinanzi al miracolo del mulino a vento che cava l’acqua dalle profondità della terra. Non sentivano più la poesia di alzarsi prima dell’alba per ascoltare il cinguettio degli uccelli e la melodia della brezza mattutina, in attesa che il primo raggio del sole inondi le zolle ancora addormentate. Queste cose andarono perdute, e i raccolti cominciarono a venire valutati in termini di dollari, e la terra in termini di capitale più interessi. E i prodotti cominciarono a venir comprati e venduti prima delle semine.
E allora le annate cattive, la siccità, l’inondazione, non furono più considerate come catastrofi, ma semplicemente come diminuzioni di profitto. E l’amore di quegli esseri umani risultò come intisichito dalla febbre del denaro, e la fierezza della stirpe si sgretolò in interessi; così che tutta quella popolazione risultò di individui che non erano più coloni, ma piccoli commercianti, o piccoli industriali, obbligati a vendere prima di produrre. E quelli fra essi che non si rivelarono bravi commercianti perdettero i loro poderi, che vennero assorbiti da chi invece si rivelò bravo commerciante. Per quanto bravo coltivatore, per quanto affezionato al suo campo, chi non era bravo commerciante non poteva mantenere le proprie posizioni. Così, con l’andar del tempo, i poderi passarono tutti in mano a uomini d’affari e andarono sempre aumentando di proporzioni, ma diminuendo di numero.
Allora l’agricoltura stessa si trasformò in industria. E i proprietari imitarono, senza volerlo, Roma antica: importarono schiavi, pur senza chiamarli così: cinesi, giapponesi, messicani, filippini. Vivono di riso e fagioli, dicevano; hanno pochi bisogni. Di paghe alte, non saprebbero che farsene. Vedi come vivono, vedi cosa mangiano. E se si agitano, si fa presto a deportarli.
E incessantemente i poderi aumentavano di proporzioni e diminuivano di numero; e per conseguenza diminuivano di numero anche i padroni. E i padroni picchiavano, terrorizzavano, affamavano i servi importati; sicché molti di questi tornarono donde erano venuti, e altri si ribellarono e furono uccisi o scacciati. I raccolti stessi subirono una metamorfosi. Il grano si vide soppiantare dagli alberi da frutta, le biade da ortaggi destinati ad alimentare l’universo intero: lattuga, cavolfiore, carciofo, patata; tutti prodotti che costringono l’essere umano a curvare la schiena. Per maneggiare la falce, l’aratro, il forcone, l’uomo sta in piedi; ma tra i filari dell’insalata o del cotone deve prostrarsi, o strisciare come un insetto, o camminare sui ginocchi come un penitente.
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E accadde che i proprietari non lavorarono più le loro terre. Coltivavano sulla carta; e dimenticarono l’odore della terra, il gusto tattile della zolla sbriciolata tra le mani; ricordarono solo che la possedevano, tennero presente solo la cifra dei guadagni che ne traevano o delle perdite che a causa di essa dovevano subire. E i latifondi presero proporzioni tali che il padrone non poteva nemmeno concepirne le dimensioni; erano così vasti che occorrevano battaglioni di contabili per rintracciare perdite e profitti, reggimenti di chimici per fecondare il terreno, brigate di intendenti per sorvegliare i servi proni tra i filari.
E allora davvero l’agricoltore si mutò in bottegaio, fino al punto da tenere effettivamente bottega: pagava i suoi servi, e per rimborsarsi vendeva loro il cibo. E di lì a poco smise persino di pagarli, per risparmiare la spesa della contabilità. Il podere dava, a chi lo lavorava, il vitto a credito; e poteva accadere che un servo, il quale lavorava solo per sostentarsi, alla fine del lavoro scoprisse di essere in debito verso chi gli dava lavoro. E il padrone non solo non lavorava più la sua terra, ma molti di essi non avevano mai nemmeno vista la terra che possedevano.
Ed ecco che, d’un tratto, nel Kansas e nell’Oklahoma, nel Texas e nel Nuovo Messico, nel Nevada e nell’Arkansas, le trattrici e la polvere si alleano per spodestare i coloni e cacciarli nel West. Ed ecco formarsi a apparire le carovane dei nomadi: ventimila, centomila, duecentomila. Varcando le montagne si riversano nelle ricche vallate: tutti affamati, inquieti come formiche in cerca di cibo, avidi di lavoro, di qualunque lavoro: sollevar pesi, spingere o tirare carichi, raccogliere, tagliare; qualunque cosa, per sostentarsi. I bambini hanno fame. Non abbiamo dove vivere. No, non siamo forestieri, no! Da sette generazioni siamo americani; e prima si era irlandesi, scozzesi, inglesi, tedeschi, italiani. Uno dei nostri antenati ha combattuto nella rivoluzione, e tanti nella guerra civile. Americani, siamo, americani al cento per cento!
Affamati; e risoluti. Avevano carezzato la speranza di trovare una casa, in California, ed ecco che trovano, dappertutto, solo odio. Okies: i padroni li odiano perché sanno di essere deboli al confronto degli Okies, d’essere ben nutriti al confronto degli Okies; e han tutti sentito dire dal nonno quanto sia facile, a chi è affamato e risoluto e armato, sottrarre la terra a chi è debole e sazio. E nelle città i negozianti odiano gli Okies perché gli Okies non hanno denaro da spendere; i banchieri odiano gli Okies perché sanno che non possono estorcerne nulla; e gli operai odiano gli Okies perché, affamati come sono, offrono i loro servizi per niente, e automaticamente il salario scende per tutti.
E gli spodestati, nomadi, confluiscono e continuano a confluire in California: duecentocinquantamila, trecentomila. Dietro alle prime ondate, altre si formano e si accavallano, perché le trattrici non cessano di dilagare nei campi. Altre ondate di spodestati senza tetto: gente indurita, accanita, pericolosa.
E se da una parte i Californiani ambiscono molte cose, come accumular sostanze, ascendere la scala sociale, concedersi svaghi e oggetti di lusso, dall’altra i nuovi barbari chiedono due cose sole: terra e nutrimento, che per loro sono una cosa sola. E mentre le ambizioni dei Californiani sono nebulose e indefinite, le esigenze degli Okies si concretano ai lati della strada, sotto la forma di acri di terreno incolto, di terra buona, con acqua a poca profondità. A un Okie basta guardare uno di questi campi incolti per vedere, con gli occhi della mente, sé stesso chino sui solchi, con tutti i muscoli tesi nello sforzo della produzione. Al nomade spodestato e affamato che avanza sul suo trabiccolo, con la moglie al fianco e i bambini in sommo al mucchio delle masserizie, il campo incolto si rivela a prima vista capace di produrre, di produrre non profitto ma nutrimento; e quel nomade affamato fa presto a convincersi che lasciare incolto il campo è un peccato mortale, e trascurare la terra è un crimine contro le proprie creature affamate. E durante il cammino egli subisce la costante tentazione di impadronirsi di questa terra, solo per renderla fertile. E in tutto il paese le arance dorate pendono dal ramo tra il fogliame verde scuro degli alberi, e nascosti tra gli alberi i custodi armati di fucili sono autorizzati a sparare contro il primo straccione che si lasci tentare a staccare un frutto per darlo alla sua affamata creatura.
Il nomade, dopo aver perlustrato la campagna tutto il giorno in cerca di lavoro, raggiunge a sera un piccolo paese. Dove si può passare la notte?
Andate a Hooverville, in riva al fiume. È già piena di Okies.
C’è una Hooverville alla periferia di ogni singolo luogo abitato. Il rione riservato agli straccioni vagabondi è ammassato sulla sponda d’’n corso d’acqua, e le case sono tende, o capanne di cartone e di paglia. Il nomade scende dal suo trabiccolo e diventa un cittadino di Hooverville. Si chiamano tutte Hooverville. Il nomade rizza la sua tenda il più possibile vicino all’acqua, o se non ha tenda va dove si scaricano i rifiuti, a cercarvi pezzi di cartone o di lamiera per fabbricarsi la capanna. Si stabilisce a Hooverville, e continua a perlustrare la campagna in automobile, in cerca d’un lavoro, e i pochi soldi che gli rimangono vanno in benzina.
La sera gli uomini si riuniscono e, accoccolati, discorrono dei terreni che hanno visitato.
La tenuta che ho vista io, sarà forse di trentamila acri, tutti incolti. Dio, cosa potrei farne! Cinque soli basterebbero a dar da mangiare a tutta la mia famiglia.
Avete notato? Niente ortaggi, niente polli, niente maiali. Dappertutto, coltivano un solo prodotto: cotone, o peschi, o aranci. Preferiscono comprare il necessario, invece di produrlo. Chi s’è mai sognato una cosa simile?
Dio, cosa si potrebbe fare con una coppia di maiali!
Inutile pensarci. La terra non è vostra; non lo sarà mai.
Talora, fra le tende e le capanne di Hooverville, serpeggia in un bisbiglio la notizia: a Shafter offrono lavoro. E subito, nel cuore della notte, tutti s’affannano a caricare le masserizie sui trabiccoli, e sulla strada ha luogo una tumultuosa corsa al lavoro; e al mattino, a Shafter, la folla degli aspiranti è cinque volte più numerosa del bisogno.
No, questo appezzamento è proprietà privata.
Ma non potete cedermene una pertica sola, da lavorare? Qui, proprio qui, questo pezzetto mi basterebbe. È tutto ortiche. Potrei cavarne patate a sufficienza per tutta la famiglia.
Macché. Il padrone non vuol saperne. Intende tenerla a ortiche.
Di quando in quando qualcuno, più animoso, fa il tentativo. Alla chetichella dissoda un pezzetto di terra, per rubarne, come un vero ladro, la poca ricchezza che può offrire. E tra le ortiche ecco nascere un orto segreto: basta un pacchettino di semi di carota, pochi tuberi di rapa, qualche frammento di patata. La sarchiatura vien fatta di notte. L’audace lascia le ortiche tutt’attorno al suo orticello, perché nessuno possa vederlo dalla strada; vi lascia anche i ciuffi più folti nel centro. Per annaffiare le piante si serve d’una vecchia latta di benzina.
Poi un giorno arriva l’agente dello sceriffo. Dite un po’, voi, cosa state facendo qui?
Niente di male.
È da un po’ che vi tengo d’occhio. Credete d’essere in casa vostra?
Era incolto, qui; non faccio torto a nessuno.
Contravvenite alla legge. Credete di essere in casa vostra? Ma guarda un po’, si credono padroni loro, questi Okies! Sgombrate subito! E l’agente calpesta i verdi sprocchetti di carota, e l’ortica non tarda a riprendere il sopravvento.
Ma l’agente ha ragione. Un raccolto mietuto costituisce un titolo al possesso della terra, e conferisce a chi l’ha lavorata il diritto di difendersela con le armi in pugno. Scacciarli, bisogna, questi intrusi; e sùbito, e senza pietà; altrimenti si crederanno di possederla davvero, e son capaci di rischiar la pelle per salvarsi l’orticello fra le ortiche. Hai visto la sua faccia quando gli ho pestato le rape? Quello è più che capace di far la pelle a chiunque osi guardarlo. Se non li teniamo a bada, questi straccioni, s’impadroniscono di tutto il paese. Tutto il paese. Porci di forestieri. Va bene, parlano la nostra lingua, ma non sono come noi. Basta vedere come vivono, chi di noi si adatterebbe a vivere così?
E a Hooverville, la sera, gli straccioni accoccolati. Sai cos’è che si dovrebbe fare? Metterci in una ventina, e dare l’assalto a un appezzamento. Siamo armati. Lo conquistiamo, e a chi viene per mandarci via diciamo tranquillamente: mandateci via, se ci riuscite. Perché non facciamo così?
Ci sparerebbero come a cani arrabbiati.
E non è meglio la morte che questa miseria? Non è meglio per i tuoi bambini morire subito, piuttosto che crepar di fame tra sei mesi? Sai cosa s’è mangiato, noi, tutta la settimana? Verdura d’ortiche, e pane di segatura. Dove ho preso la segatura? In un carro bestiame alla stazione.
E, per contro, gli arroganti discorsi dei poliziotti ben pasciuti: Trattarli senza pietà, dico io; o Dio sa cosa ci combinano. Gente più pericolosa dei negri del Sud. Se si mettono d’accordo, nessuno li tiene più. Hai ben sentito quel ch’è successo a Lawrenceville. A Lawrenceville un poliziotto è dovuto ricorrere alla forza per scacciare un abusivo, e il ragazzo undicenne di questo straccione ha sparato, col fucile del babbo, e ha ucciso il poliziotto. Peggio dei serpenti, ti dico. Non bisogna lasciarli parlare, e se insistono, sparare senz’altro, sparare noi per primi. Se un marmocchio è capace di uccidere, cosa faranno gli adulti? L’unica è di mostrarsi più forti di loro. Trattarli da cani. Spaventarli.
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E se non si lasciano impressionare? Se si ribellano in tanti, e si mettono a sparare anche loro? Son tutti avvezzi a usare il fucile fin da bambini. Se non si lasciano impressionare? Se si organizzano in bande, chi li ferma più? Son tutti disperati, capisci; disperati che hanno provato la paura della fame, che è superiore a ogni altra.
E di quando in quando, qua e là in tutta la California, le razzie: le irruzioni di agenti armati negli attendamenti degli abusivi. Via di qui! Ordine del Dipartimento dell’Igiene. Questo accampamento rappresenta un pericolo per la sanità pubblica.
Dove possiamo andare?
All’inferno, non ci riguarda. Abbiamo ordine di scacciarvi di qui. Tra mezz’ora appicchiamo il fuoco all’accampamento. Avete il tifo, qui; volete propagarlo? Abbiamo ordine di scacciarvi. Via di qui! Tra mezz’ora appicchiamo il fuoco.
Mezz’ora dopo il fumo delle case di cartone e delle capanne di paglia s’innalza nel cielo e le famiglie sono di nuovo in viaggio alla disperata ricerca di un’altra Hooverville. E nel Kansas e nell’Arkansas, nell’Oklahoma, nel Texas e nel Nuovo Messico le trattrici continuano inesorabili a sfrattare altri coloni.
Trecentomila già in California, e nuove ondate in cammino. Tutte le strade ingombre di gente frenetica, che formicola inquieta in cerca di pesi da alzare, carichi da spingere o da tirare; in cerca di lavoro. Per ogni offerta di lavoro, cinque paia di braccia levate; per ogni singola razione di cibo, cinque bocche aperte.
E i latifondisti, che si sanno destinati a perdere la terra in caso di rivolta organizzata, i grossi latifondisti che conoscono la storia, che hanno occhi per leggere la storia e intelligenza per capirla, sanno, conoscono benissimo il fatto fondamentale che quando la proprietà terriera si accumula nelle mani di pochi, va inesorabilmente perduta. E sanno anche quest’altro fatto, concomitante, che quando una maggioranza ha fame e freddo, essa finisce sempre col prendersi con la violenza ciò che le occorre. E sanno infine questo terzo fatto, meno evidente forse, ma sempre presente nel corso della storia: che cioè le repressioni servono solo a rinvigorire e a riunire tra loro i perseguitati.
Ma i latifondisti preferiscono ignorare questi tre ammaestramenti della storia. La terra s’accumula sempre più nelle mani di pochi, il numero degli sfrattati continua ad aumentare, e tutti gli sforzi dei latifondisti continuano a orientarsi verso la repressione. Il denaro pubblico va speso in armamenti e in gas lacrimogeni per salvare la pelle dei latifondisti, e in spie, spie che hanno l’incarico di captare ogni minimo rumore di rivolta per poterla soffocare in tempo. I latifondisti preferiscono ignorare l’evoluzione dell’economia, e le premesse di tale evoluzione; considerano solo i mezzi atti a reprimere le rivolte, senza curarsi di sopprimere le cause determinanti.
Le trattrici che gettano i coloni sul lastrico, le mastodontiche imprese di trasporto, le macchine che producono, tutto questo merita l’incondizionato appoggio dei latifondisti; e non importa se aumenta in modo spaventoso il numero delle famiglie sul lastrico, avide di qualche briciola degli sconfinati latifondi. I latifondisti formano associazioni per proteggersi, si riuniscono a discutere sui mezzi più efficaci per intimidire, soffocare, uccidere. E si persuadono di non dover temere il pericolo principale, costituito dall’eventualità che i trecentomila trovino, fra di essi, un capo che sappia guidarli. Se ai trecentomila miserabili consentite la possibilità di contarsi, è inevitabile che essi conquisteranno la terra; e non v’è gas o mitragliatrice che possa fermarli.
Così i latifondisti, che a causa del possesso dei latifondi divengono sempre più superuomini e al contempo sempre più disumani, corrono verso la propria distruzione, e senza avvedersene usano di ogni mezzo che a lungo andare finirà inesorabilmente col sopprimerli. Ogni espediente, ogni atto di violenza, ogni scorribanda in una Hooverville qualsiasi, ogni singolo sceriffo spaccone in un accampamento di straccioni, non fanno che procrastinare di qualche giorno l’alba fatale, rendendola inevitabile.
I coloni, tutti uomini dai lineamenti scarni e duri, scarni per la fame, e duri per la perseveranza con cui la combattono, tutta gente dagli occhi torvi e dalle mandibole d’acciaio, discorrono nei miserabili attendamenti circondati dalla fertile terra incolta.
Hai sentito di quel bambino della tenda numero quattro?
No. Sono appena arrivato ieri.
Poverino. Piangeva sempre nel sonno, si dibatteva. I genitori credevano che fossero i vermi, e gli fanno un clistere, ma il piccolo muore. S’è scoperto ch’era la lingua nera, come la chiamano; è una peste, che viene a chi mangia cose marce.
Povero piccino.
E i suoi non possono nemmeno dargli sepoltura, non hanno un soldo.
E le mani frugano in tasca e ne traggono monete e davanti alla tenda numero quattro si forma un mucchietto d’argento.
La nostra è brava gente, gente in gamba. Voglia il cielo che non vada tutta in miseria! Ma le associazioni dei latifondisti dovrebbero sapere che il cielo un bel giorno smetterà di volerlo. E dovrebbero sapere che quel giorno sarà la loro fine.
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23 aprile 2013